Siamo tutti scuola e vita che binomio di Ferdinando Camon

Siamo tutti coca-colonizzati-, scuola e vita, che binomio AL GIORNALE Siamo tutti coca-colonizzati-, scuola e vita, che binomio Perdonare il preside o i ragazzi? Ferdinando Camon (La Stampa del 27 marzo) così conclude il suo penetrante, e convincente, commento in merito alla sospensione dalle lezioni scolastiche di Rebecca e Cristian: «Ma il problema non è se perdonare i ragazzi. Il problema è se perdonare il preside». C'è chi s'è chiesto se la scuola sa, oggi, ripiegarsi su se stessa, per riscoprire la propria natura. Se sa, cioè, cogliere geneticamente il significato più coinvolgente (più aperto) del suo interagire con gli allievi. Non è, ovviamente, un rimpiangere la scuola del passato: quella, per intenderci, caratterizzata da uno sviluppo lento, anzi infrenato da una politica scolastica ottusamente classista. E' auspicare una scuola che, fondandosi sulla valorizzazione delle esigenze capitali del processo educativo, sia aperta alla formazione della personalità a livello della piena fanciullezza -adolescenza. Perché è con una sempre più volonterosa attuazione di questo principio che si corrisponde - sul piano pratico - alle giuste esigenze delle fasi dell'età evolutiva. Da un punto di vista generale, penso, tutti dovrebbero concordare che nella scuola debba entrare un fervido soffio di vita nuova (ma vorrei dire: di «vita tout court»). Si avanzano accuse di nuova, o riesumata?, illegittima severità. Non c'è dubbio, ad ogni buon conto, che misure di legittima severità non possono approdare, «sic et simpliciter», a sanzioni tipo la sospensione dalla comunità educante. Una comunità scolastica vale in quanto sappia promuovere, negli allievi, abiti operativi in cui ferva una vera comprensione della convivenza (comunitaria). Occorre pure considerare, sempre, ogni affermazione psicopedagogica, oltre che in se stessa, nelle possibili ripercussioni pratiche provocate dalla sua attuazione. Ciò è indispensabile se si vogliono evitare o, quantomeno, non provocare «effetti collaterali» negativi e indesiderati. Importa por mente, per¬ ciò, a quelli che E. Spranger - in «Educazione, e diseducazione involontaria» - chiama gli «stili fondamentali»; e ciò, per l'appunto, al fine di evitare, nella misura possibile, eccessi (o unilateralismi). Importa, anzitutto, por mente alla rilevanza della personalità dei ragazzi in rapporto al processo della loro determinazione bio-psichica; alle strutture e ai processi della loro psicologia. Perché la scuola ma non è ormai un luogo comune? deve sapersi portare anche fuori del proprio orizzonte. Vita e scuola, scuola e vita: binomio inscindibile. La scuola deve ben persuadersi di questo: se si dissociasse, poniamo, la scuola dalla vita, si dissocerebbe la vita dalla scuola. Questione, peraltro, vecchia, vecchissima, ma che riaffiora, di quando in quando, come nuova (auspicata, ma non risolta). Il regolamento scolastico («redatto nel 1925 e aggiornato nel '77»)? Un regolamento scolastico va pur sempre giudicato oltre che in misura della sua adeguatezza alle esigenze storico-sociali che sono maturate (owerossia etico-sociali e didattico-i. .^cative) - in misura alla dignità della persona da educare. E, del resto l'età evolutiva è suddivisa in periodi, ciascuno dei quali ha caratteri fisiologici, psicologici e interessi spirituali, mentali, affettivi suoi propri, di cui la scuola, se vuole educare sul serio, deve tener conto, evitando (comunque) di praticare un'educazione repressiva; evitando, poniamo, di sospendere dalla comunità educante allievi che debbano pur sempre, se non con maggior interazione, essere soggetti di educazione. L'intempestivo intervento di repressione potrebbe rilevarsi controproducente. dott. Giulio Lunardi, Torino Ma la parrucchiera non sta a Londra Consentitemi di fare una breve aggiunta (lamento comune, mezzo gaudio?) alla lettera del lettore Manfredi, da voi pubblicata sabato 26 marzo, circn la coca-coloniz- zazione (definizione non mia ma di un politico francese) cui siamo sottoposti. E non da inglesi o americani, il che sarebbe anche legittimo o scusabile, ma - e questo è il grave - da quattro nostrani pseudosaputi (una volta li avrebbero definiti «provinciali») che purtroppo, possedendo i mezzi di comunicazio¬ ne, diffondono e impongono le loro scemenze. Per cui, se rido quando vedo la parrucchiera del borgo che, a caratteri cubitali, mi comunica dalla vetrina (credendo forse di avere il negozio a Londra o quantomeno nell'aeroporto di Fiumicino) Quick service, sorrido un po' meno quando sento l'annunciatore Rai che dice: «Il tal brano lirico sarà cantato da Patrizia Peis» (che è poi l'italianissima soprano Patrizia Pace), o quell'altro annunciatore televisivo, sempre della Rai, che ricorda la grandissima attrice Eleonora Dius (scommetto che citava la Duse), comincio a essere serio quando vedo che i 'IT, Trasporti Torinesi, con tutte le grane che hanno, non si peritano di stampare sul biglietto valido tre ore - lire 2000 - la scritta shopping (torinese non è, sarà inglese? Dovrò andare a comprare un vocabolario per capire l'uso che potrò farne? Vorrà dire «andata e ritorno»? Chissà!...), e comincio a singhiozzare quando, dopo 2000 anni di non plus ultra, da una decina di giorni la televisione - pubblicità di non voglio dire quale detersivo - mi insegna a pronunciare plas! Dico solo che tutto questo è avvilente. Franco Fedele, Torino La violenza al semaforo Mi fermo ad un semaforo di largo Preneste. E' quasi mezzanotte. Davanti a me c'è una Uno bianca con tre ragazzi a bordo; un lavavetri di colore, molto giovane, gli si avvicina: chiede permesso, lava e asciuga il lunotto mentre i tre ridono e scherzano. Lui tende la mano al finestrino semiabbassato, poi vedo che la ritrae fulmineo. Il semaforo è ancora rosso ma la Uno sguscia via lo stesso. Il ragazzo viene a lavare il mio vetro, chiede e lava... gli dò mille lire, ma la sua mano è rossa, piena di sangue, un dito lacerato ed una ferita sul palmo. Il semaforo scatta ed i clacson impazziscono. Accosto mentre le macchine mi sfilano via sulla destra, bestemmiando. Lui si riawicina ed è sereno ed incredulo; mi tende la mano per farmi vederi-, mentre io lo guardo ed i suoi occhi sono dolcissimi. Mi dice: «Guarda amico... guarda». Io gli prendo la mano e gli chiedo chi... «Quei ragazzi, amico... ma non è niente, non preoccupare amico... non è niente davvero! Volevano darmi soldi ma poi... ho messo la mano ma... col coltello sai, amico. Ma è tutto ok, amico... vai, è verde». Giro la piazza come inebeti¬ to, voglio portarlo al Pronto Soccorso, ma, maledetti semafori, ci impiego cinque minuti e non lo vedo più, non c'è più. Anche stanotte il suo «lavoro» è finito. Ho visto questo ieri notte e non sapevo come esprimere il mio orrore. E' l'egoismo che ci fa dimenticare il male che vediamo e forse un po' ci salva dall'esserne sommersi. E' l'egoismo che non ci fa vedere oltre noi stessi. Alessandro Bussani, Roma Thatcher, stress da hobby A proposito del malore che ha colpito la signora Thatcher in Cile (La Stampa del 23 marzo) ho letto che Lord Archer lo attribuisce al fatto che la ex Signora di ferro non ha nessun hobby e perciò accumula troppo stress per la mole di lavoro politico-sociale che tutti i giorni deve svolgere. Certamente il suddetto Lord non ha letto quello che Hans Selve, che di stress se ne intende (inventò la parola «stress» e fu il primo a studiare questa situazione), dice sull'argomento: «Questi fortunati (intendo chi fa ciò che gli piace, e via elencando pittori, attori, direttori d'orchestra, politici, ecc.) non lavorano, ma sono riusciti a fare dei loro hobby un lavoro». Alfio Sapenco, Alessandria L'elezione di Carla Stampa Vorrei precisare di non essere «l'unico deputato progressista di Milano», come riportato nell'articolo di Massimo Gramellini su La Stampa del 2 aprile 1994, bensì uno dei tre deputati eletti a Milano e provincia nella proporzionale per il pds. Gli altri due sono Nilde Jotti e Franco Bassanini. Cordiali saluti Carla Stampa, Milano