«Un autogol per l'America le crociate contro Pechino»

«Un autogol per l'America le crociate contro Pechino» «Un autogol per l'America le crociate contro Pechino» REALPOLITIK E DIRITTI UMANI IL dibattito suscitato in America dalla visita in Cina del segretario di Stato Warren Christopher è stato troppo incentrato sul suo «fallimento» nel promuovere i diritti umani in quel Paese. Si dovrebbe piuttosto discutere un altro problema: se non si è messa a rischio la politica complessiva degli Usa verso il Paese-chiave dell'Asia. L'aspro confronto di Pechino è stato tanto più drammatico in quanto è avvenuto dopo un periodo in cui le relazioni sinoamericane erano andate nettamente migliorando. Nell'ottobre scorso, Clinton ha tolto il veto a incontri bilaterali a livello ministeriale, che era in vigore dall'epoca della repressione di piazza Tienanmen; poco dopo, il Presidente ha incontrato il collega cinese Jiang Zemin. Sono seguiti molti incontri ministeriali, inclusi alcuni fra il segretario di Stato Christopher e il pari grado Qian Qichen. L'amministrazione Usa, sottolineando di opporsi a certe specifiche pratiche cinesi e non al sistema comunista nel suo complesso, ha significativamente ridotto le condizioni per rinnovare a Pechino la clausola della nazione più favorita (che scade il 3 giugno, ndr). I leader cinesi hanno alluso a una disponibilità a venire incontro alle preoccupazioni americane, quando ciò non sia incompatibile con la legge cinese - un criterio molto elastico. Che cos'è dunque andato storto nella visita di Christopher, che avrebbe dovuto coronare questi progressi? Il problema di fondo è stato concettuale. L'amministrazione, sensibile alle pressioni interne americane, è sembrata convinta che concessioni nel campo dei diritti umani fossero «dovute» da Pechino in cambio del ristabilimento dei rapporti ad alto livello. I cinesi invece ritengono di aver titolo agli stessi contatti incondizio¬ nati che mantengono con loro tutte le altre nazioni. Perciò non hanno visto l'eliminazione di un atto ostile unilaterale americano come una concessione di cui essere grati. E per di più sono estremamente suscettibili ad ogni pur velata ingerenza nei loro affari interni. Finché i diritti umani rimangono il tema centrale del dialogo sino-americano, l'impasse è inevitabile. Tuttavia, dallo stallo si- può uscire. Il problema non è se l'America debba abbandonare la campagna per i diritti umani, come qualcuno a volte propone; ma come promuovere i suoi valori senza trascurare altri aspetti dei rapporti con la Cina. La politica degli Stati Uniti a favore dei diritti umani è fortemente radicata nella tradizione del Paese. Nessun'altra nazione è stata fondata dandosi in modo così esplicito lo scopo di rivendicare la libertà e di essere massicciamente popolata da rifugiati. L'esperienza storica americana ha perciò infuso alla politica estera del Paese una tendenza missionaria senza eguali. Le altre nazioni devono considerare seriamente questa tendenza: per gli americani, l'interesse nazionale non può essere separato da qualche forma di preoccupazione per i diritti umani. D'altra parte, la percezione che gli Stati Uniti hanno di se stessi come difensori globali dei diritti umani è così inveterata che spesso gli americani dimenticano quanto sia solitaria questa prospettiva rispetto al modo in cui le altre nazioni conducono le loro rispettive politiche estere. Ogni altro grande Paese con- cepisce la politica internazionale come un equilibrio di rischi e benefici. Ciò che gli americani definiscono diritti umani è relegato alla giurisdizione interna delle singole società, per cui non diventa oggetto della diplomazia. Il Dipartimento di Stato sostiene di non premere sul governo cinese perché cambi le sue istituzioni, ma solo perché si adegui alla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Ma resta il fatto che nessun altro Paese firmatario ha tirato in balle quel documento dell'Orni nella sua politica verso Pechino, e ciò solleva il problema se gli Usa debbano far rispettare ogni dichiarazione dell'Onu unilateralmente, anche quando tutti gli altri firmatari la ignorano. L'approccio americano ai diritti umani non suscita alcun sostegno da parte degli altri governi. Nemmeno una singola nazione asiatica ci appoggia; nessuna sarebbe al nostro fianco se la questione sfociasse in una crisi di vaste proporzioni. La puntigliosa insistenza sulla sovranità è caratteristica del governo di Pechino, perché in Cina l'intervento occidentale è percepito come un'ininterrotta umiliazione del Paese fin dai tempi delle guerre dell'oppio a metà dell'Ottocento. Perciò, basare le relazioni sino-americane sulla questione dei diritti umani penalizzerà sia i rapporti bilaterali sia i diritti umani. E' un fatto noto che la Cina ha l'economia che nel mondo cresce più rapidamente di tutte, e che con la sua popolazione oltre il miliardo rappresenta il più ampio mercato che ci sia. Escludere gli Usa da queste prospettive non è una decisione di poco conto, specie considerando che le altre nazioni sono dispostissime a riempire il vuoto lasciato dall'A¬ merica. Inoltre, l'Asia è fra le regioni del mondo con il maggior potenziale di minaccia alla pace. I suoi Stati non hanno sviluppato schemi di cooperazione analoghi a quelli emersi in Europa dopo la seconda guerra mondiale. In Asia non ci sono equivalenti della Nato, dell'Unione europea o della Conferenza per la sicurezza e la cooperazione. Come le nazioni europee nel secolo scorso, gli Stati asiatici vedono l'uno nell'altro un potenziale competitore strategico e conducono almeno in parte la loro politica estera sulla base della geopolitica. Promuovere un equilibrio in Asia è perciò essenziale alla pace mondiale, e dovrebbe essere un obiettivo fondamentale della diplomazia americana. La stabilità in Asia è probabilmente assicurata se Cina e Stati Uniti vi cooperano. Un confronto con la Cina ci costringerebbe invece a organizzare tutto il resto dell'Asia contro Pechino. In futuro, una politica estera cine¬ se aggressiva potrebbe costringere l'America a questa scelta. Ma nella situazione attuale, non c'è niente che richieda l'isolamento della Cina. L'America non otterrebbe che di isolare se stessa e perdere la possibilità di instaurare un ordine stabile. Stati Uniti e Cina hanno un interesse parallelo all'equilibrio in Asia. La Cina vuole che l'America la aiuti a bilanciare i suoi potenti vicini - Giappone, Russia e India - almeno finché non sarà forte abbastanza da farlo da sola. L'America ha bisogno della cooperazione cinese su queste stesse materie, e in più sul problema di Taiwan e del suo futuro, sulla proliferazione nucleare in Corea del Nord e sul trasferimento della tecnologia nucleare. Questi sono i problemi che dovranno essere al centro del dialogo sino-americano quanto meno per dieci anni a venire. L'attenzione ad essi faciliterà anche progressi sui diritti umani, perché fornirà un contesto strategico favorevole. Nella lunga storia del Paese, i leader cinesi hanno spesso dimostrato di tener conto dei bisogni particolari delle loro controparti, se questo rispondeva anche ai loro interessi. Quello che non accettano è che l'America elargisca la sua cooperazione come un favore straordinario che si possa revocare ad arbitrio. Il Congresso americano dovrebbe capire che, al di là di un certo punto, le pressioni pubbliche tendono a produrre il contrario di quello a cui sono indirizzate. Le preoccupazioni del Congresso sono ormai state mostrate a sufficienza; ora si dovrebbe permettere all'amministrazione di perseguire l'obiettivo con calma. Henry Kissinger Copyright «Los Angeles Times Syndicate» e per l'Italia «La Stampa» ìngerenze nei loro affari

Persone citate: Clinton, Henry Kissinger, Jiang Zemin, Qian Qichen, Warren Christopher