Così Muti ci fa vedere i paesaggi della Creazione
Haydn per la prima volta alla Scala Haydn per la prima volta alla Scala Così Muti ci fa vedere i paesaggi della Creazione Grande prova di voci e orchestra per dipingere attraverso la musica MILANO. E' incredibile che «La creazione» di Haydn non fosse mai stata eseguita alla Scala: Verdi l'aveva diretta nel 1834 al Teatro dei Filodrammatici ma l'oratorio popolarissimo, composto nel 1798 ed immediatamente tradotto in italiano, francese, svedese, polacco e russo, ha dovuto attendere sino all'altra sera per entrare nel gran teatro milanese, grazie all'iniziativa di Riccardo Muti di cui è rimasta memorabile l'esecuzione salisburghese, poche stagioni fa. La «Creazione» è quella meraviglia che tutti sappiamo: Haydn mette in musica il racconto della Genesi, inframmezzato da arie e cori in cui si celebra la bellezza del mondo attraverso una miriade di particolari dipinti a colori vivi. Attraverso la musica «vediamo» tutto: il sorgere del sole e della luna, la pioggia, la neve e la grandine, i pesci che nuotano, gli uccelli che volano, gli insetti che ronzano, fiori e acque, colline e montagne, luce e tenebre. Nessun musicista aveva ritratto, con pari esattezza visiva, il ruggito del leone e la corsa della tigre, il cinguettio dell'usignolo e il tubare dei colombi, la mostruosità del leviatano che nuota negli oceani e l'agitarsi del mare in tempesta, anche se l'arte della pittura sonora aveva una lunga tradizione nella musica del Settecento. Ma Haydn innova questa tradizione; collegate strettamente tra loro attraverso l'arte della deduzione musicale, le immagini non sono più isolati esercizi di illusionismo sonoro ma fanno parte di un flusso interiore: quello della preghiera nata dalla commozione di chi ammira la bellezza del creato. Muti ha inteso perfettamente la poesia religiosa che anima le tre parti della «Creazione» e l'ha resa, innanzi tutto, attraverso il suono: raramente abbiamo sentito, nell'orchestra della Scala, tanta morbidezza di timbri e di impasti, e quella nitidezza cristallina che Riccardo Muti Marion Brando in un'immagine dei tempi d'oro quando era il sex-symbol di Hollywood e anche il sogno segreto delle donne d'America: e non solo Il Padrino 1972: il mafioso più celebre. Molti chili in più, guance imbottite, voce arrochita, Brando si trasforma da seduttore a stanco boss dei boss. E' Don Vito Corleone, dal romanzo di Puzo, radiografia di una mafia pittoresca ma ugualmente temibile. Ancora un Oscar, dopo quello per «Fronte del porto». cioni lmer d'autore e creatore di film carini, non visti, a spese del Berlusca e dello Stato...». Così, in attesa di altre avvisaglie, qualcuno già fa notare quanto sia significativo l'appoggio berlusconiano offerto al «DellaMorte DellAmore» di Michele Soavi: sì al cinema di genere, sembra fotografare in musica i colori del paesaggio austriaco. Con mirabile naturalezza ogni particolare appariva e spariva, l'altra sera, entro il flusso di un discorso strumentale scorrevole, sempre attento nel sostenere i quattro solisti: il soprano Angela Maria Blasi dalla voce morbida e duttile, il tenore Bruce Ford nitido e garbato, il possente Samuel Ramey nel ruolo del basso e Olaf Baer con misurata eleganza nella parte di Adamo. Nell'ultima parte dell'oratorio, in cui compaiono Adamo ed Eva, Haydn ha voluto concertare il suo obiettivo sul fatto umano, rinunciando a proseguire nella pittura sonora di particolari che il libretto ancora gli offriva. A questa presenza dei due personaggi che contemplano la perfezione del mondo creato da Dio si possono dare significati diversi: stringendo i tempi ed esaltando i contrasti, come facevano Karajan e Bernstein, si può mostrare in Haydn un entusiasmo vitale che lo collega da una parte alle opere tedesche di Mozart dall'altra al «Fidelio» dove trionfa l'etica della coppia, già celebrata nel «Ratto dal serraglio» e nel «Flauto magico». Staccando invece tempi più pacati, con l'evidente intenzione di liricizzare il tutto, come fa Muti, l'ultima parte diventa estatica, e chiude il lavoro in una sorta di dolcissima trasfigurazione religiosa, culminante nello scoppio argentino del coro finale. Il quale, guidato da Roberto Gabbiani, ha offerto una prova non inferiore a quella dell'orchestra: le voci sembravano mosse dal vento, tanto incisivo era il gesto di Muti nel chiedere leggerezza, trasparenza e mobilità. Il successo è stato vivissimo da parte del pubblico che ha seguito nella massima concentrazione l'esecuzione, festeggiando alla fine a lungo l'orchestra, il coro, i solisti e il demiurgico direttore. Paolo Ga Iterati
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