IMMAGINATI DA SCHWOB di Giovanni Bogliolo

IMMAGINATI DA SCHWOB IMMAGINATI DA SCHWOB Biografie con perversione STRANO personaggio Marcel Schwob, anche per un'epoca come la fin de siede che di figure eccentriche ne ha prodotte a profusione: coltissimo e irrequieto, usa con la stessa lucida perizia la filologia e l'erudizione per interrogare i classici del passato e per esplorare quanto di più bizzarro si annida tra le pieghe della storia; ironico e appassionato, si delizia di raffinatezze intellettuali ai mardis di Mallarmé e si strugge di tenerezza al capezzale di un'operaia consunta dalla tisi. Da raffinato decadente, per anni tiene rigorosamente separate la letteratura e la vita; poi, all'improvviso, di fronte alla prova decisiva della malattia, decide, all'opposto dell'altro e più grande Marcel, di «vivere i suoi racconti» e insieme con Ting, un servo cinese acquistato all'Esposizione Universale, si avventura in un lungo e tormentoso viaggio verso i mari del Sud per andare a rendere omaggio alla tomba di Stevenson. Strano biografo, soprattutto. Di una disciplina che, cercando di trarre dalla storia le proprie credenziali, si è sempre interessata degli individui soltanto per l'incidenza che essi hanno avuto sulle azioni generali, fa un'arte in certo senso «pura», una costruzione intellettuale quasi totalmente avulsa da un modello reale e libera nei suoi confronti da qualunque obbligo di verosimiglianza. Quello che conta di una vita, secondo Schwob, è la sua irripetibile unicità, la particolare, significativa coincidenza di alcuni tratti, eventi, circostanze che, nella realtà, sono rimasti confusi in mezzo alla folla degli altri o sommersi sotto quelli che la storia di tutti mette prepotentemente in primo piano. Compito del biografo è individuarli e restituirli nella loro vitale eccentricità, così come ha fatto, ma solo a tratti, quando non si è smarrito a parlare dei libri e delle lettere di Samuel Johnson, James Boswell o, più sistematicamente, malgrado una certa rozzezza di stile, John Aubrey, che, trascurando il generale per il particolare, ci ha informato che Milton arrotava la erre, Erasmo non amava il pesce e Cartesio faceva i suoi calcoli complessi con un compasso che aveva un'asta rotta. blio dell'anonimato e da ridurre, per il piacere dell'arte, ai tratti distintivi della loro unicità. Certo, non sarà casuale che queste vite siano quasi sempre segnate dal marchio di una perversione - Cratete e coprofilo, Septima necrofila, Clodia incestuosa e sadici sono i signori Burke e Hare - e seguano un percorso di regressione e di abbrutimento che le conduce inesorabilmente ad una tragica fine. Ma è solo il segno delle predilezioni del biografo, della sua propensione per l'insolito, per il trasgressivo, per il morboso, ciò che il curatore di questa nuova edizione italiana, chiama nella sua lingua cesellata «un tornagusto della mente, speziato d'ossessione». L'essenziale sta altrove, nella coerenza di un ritratto di cui la perversione o, meglio, l'impulso d'autodistruzione che, pur nella varietà delle forme, sembra comune a tutti gli umani è uno tra i tanti elementi: nell'elegante, classico nitore di una lingua che il traduttore inasprisce di arcaismi («nutricare», «loia», «al servito delle frutte») e, ogni volta che nel testo francese a fronte compare la negazione point, dissemina di inopportuni, popolareschi «mica»; soprattutto nell'inedito, sapidissimo impasto di erudizione e capriccio, di compostezza storiografica e di divertita provocazione. Non stupisce che Schwob figuri, proprio negli anni in cui cominciava a pubblicare sul «Journal» le sue Vite immaginarie, come dedicatario di due opere così dissimili come l'Introduzione al metodo di Leonardo da Vinci di Paul Valéry e Ubu re di Alfred Jarry. Entrambi gli dovevano qualcosa: sul versante serio Valéry, che in quel suo primo giovanile tentativo di pensare il pensiero faceva astrazione dalle notizie storiche su Leonardo e avvertiva che «quasi nulla doveva essere riferito all'uomo che ha illustrato quel nome»; su quello ilare e bizzarro Jarry, che al suo immortale burattino non voleva negare anche il sapore di una paradossale e parodistica «vita immaginaria»: «Ordunque il Padre Ubu scosse la pera, onde fu poi chiamato dagli inglesi Shakespeare, e di lui sotto questo nome avete assai belle tragedie per iscritto». Ventidue esistenze illustri e modeste: nuova edizione Non è una banale ricerca del dettaglio curioso: «L'arte del biografo - dice Schwob -, consiste nella scelta. Egli non si preoccupa di essere veritiero; deve creare in un caos di tratti umani. Demiurghi pazienti hanno radunato, per il biografo, idee, movimenti di fisionomia, avvenimenti. In mezzo a questo grossolano insieme, il biografo vaglia ciò che può comporre una forma che non assomigli a nesun'altra. E' inutile che sia pari a qualla creata un dì da un dio superiore, basta che sia unica, come ogni altra creazione». E uniche le sue Vite immaginarie (intr. e trad. di Nicola Muschitiello, Biblioteca Universale Rizzoli, pp. 278, L. 13.000) lo sono davvero: ventidue esistenze, alcune illustri, altre modeste, pescate nel mare magno dell'umanità non per la loro esemplarità, ma solo perché più facili da sottrarre alle genericità della storia o all'o¬ Giovanni Bogliolo