«Com'erano belli quegli anni al Cremlino con Gorbaciov »

Shevardnadze, leader georgiano: sono angosciato per il mio Paese devastato da fame e guerra Shevardnadze, leader georgiano: sono angosciato per il mio Paese devastato da fame e guerra «Com'erano belli quegli anni al Cremlino con Gorbaciov » IL MINISTRO DELLA PERESTROJKA TBILISI. Città fantasma, popolata di fantasmi, dove i vivi scappano. In poco meno di tre anni, finita l'euforia di un'indipendenza malcalcolata, peggio gestita, sembra che siano 600 mila quelli che hanno scelto l'emigrazione. Un'enormità se si pensa che i georgiani erano poco più di 5 milioni. Perduta l'Abkhazia, di fatto separata l'Ossezia del Sud, in procinto di andarsene la regione degli Adzhari. Non c'è di che mangiare, scaldarsi, lavarsi nemmeno nella capitale. Alle 7 di sera le strade sono deserte. Vicino ai negozi del pane, scomparse le lunghe code del giorno, restano a terra le file di pietre con sopra i nomi scritti per l'attesa del giorno dopo. La luce arriva quando capita, due ore scarse di tv alla sera. Avventurarsi in auto fuori Tbilisi significa essere fermati da bande che rispondono solo a se stesse. Le rovine della guerra civile che cacciò Gamsakhurdia dominano ancora il corso Shota Rustaveli. Non c'è denaro per ricostruire, come non c'è per pagare il gas che la Russia quasi regala in cambio di una presenza che incombe di nuovo. Eduard Shevardnadze è venuto per salvare i georgiani. Se non ci fosse lui il Paese sarebbe già affondato del tutto. Ma è un deus ex machina, un Cincinnato che predica nel deserto, circondato da uomini armati di Kalashnikov. Ci vorrebbe un miracolo, ma anche Dio è lontano dal Caucaso. [g. e] TBILISI DAL NOSTRO INVIATO E' appena terminata una seduta fiume del Parlamento durata fino a sera. Più simile a una gazzarra che a un dibattito. L'ho osservato a lungo mentre ascoltava immobile, impassibile, intervenendo brevemente solo per dare qualche chiarimento, con la sua voce monotona, incolore, quasi volesse, con essa, placare gli animi. E' ormai sera tarda quando arriva nel suo ufficio al quarto piano dell'ex Istituto del marxismo-lenini-• smo. Attorno, un gruppo di baldi giovanotti con le giacche rigonfie e il fucile mitragliatore che sgualcisce il doppiopetto. Eduard Amvrosievic Shevardnadze, è contento del suo Parlamento? Ride di cuore. «Stiamo imparando. Cosa vuole, la demagogia è la regola, ma non si passa dal totalitarismo alla democrazia senza questa fase». Lei era un leader dell'Urss nel 1989, ai tempi del primo Parlamento relativamente democratico della storia sovietica. Vede qualche differenza, qualche progresso? «C'è più pluralismo. Per il resto non direi che siamo andati molto avanti». Qual è il bilancio di questi due anni dopo il sao ritorno trionfale a Tbilisi? «E' un bilancio complicato. Sono angosciato perché non abbiamo risolto il problema principale: l'integrità territoriale del Paese. La situazione economica è gravissima. Lei ha visto, viviamo molto male. D'altro canto siamo riusciti a evitare il peggio, la guerra civile su larga scala». Davvero lei considera sventato questo pericolo? «Avremo problemi seri, certo, ma la guerra civile non ci sarà. E abbiamo instaurato molti rapporti con il mondo esterno, siamo usciti dall'isolamento». L'effetto Shevardnadze... «No, io ho solo contribuito. Era molto importante che ci riconoscessero e ci aiutassero. La gente è alla fame. Se non ci fosse stato l'apporto dall'esterno, dalla Russia, dal Kazakistan, dai Paesi europei, oggi saremmo di fronte alla minaccia dell'estinzione fisica». Eppure l'opposizione in Parlamento è molto aspra proprio contro di lei, l'accusano di aver perduto l'Abkhazia. E che altro? «Molti tr" questi giovanotti vogliono solo qualche poltrona. Qualche volta mi viene la tentazione di piantare baracca e burattini e di dire loro: arrangiatevi! Poi penso: è la mia gente. Non posso abbandonarli. Io vorrei lasciare posto ai giovani, ma questi sono solo i figli dell'intelligencija cittadina. Bisogna prima costruire una base solida per quelli che verranno. Adesso ci sono più di cento partiti, tutti microscopici, senza peso. Per questo ho deciso di promuovere 1' "Unione dei Cittadini", un movimento per unificare le forze responsabili. Poi approveremo la Costituzione e faremo nuove elezioni. Io lavoro anche perché si formi un forte partito di opposizione...». Un sistema bipartitico? «Sì. Due o tre partiti, ma seri». Ora lei è Presidente del Parlamento e Capo dello Stato. Punta a una Repubblica presidenziale? «Sì. A un forte potere presi- denziale, con un forte Parlamento che faccia da contrappeso». Lei guarda l'esperienza di Mosca, dove però c'è solo il potere presidenziale... «Eltsin voleva una Costituzione che garantisse l'integrità dello Stato. E c'è riuscito. Forse non è riuscito a dare garanzie democratiche. Terrò conto degli errori altrui». Lei ha scelto Eltsin e i democratici moscoviti come suoi allea¬ ti. Che succederà se a Mosca ci sarà un cambio della guardia? «Nonostante le difficoltà, Boris Eltsin ha ancora un grande potenziale. Se riuscirà a rimanere in carica sino alla fine del suo mandato, penso che la gente farà in tempo a capire meglio la democrazia». Mi dica del suo viaggio in America. Laggiù stanno cercando di correggere le scelte degli anni scorsi. Lei ha avuto l'impressione che abbiano le idee chiare sull'ex Unione Sovietica? «Stanno analizzando la situazione. Non posso dire che capiscano tutto, ma spesso nemmeno noi capiamo bene cosa succede qui. Io ho detto loro che bisogna impedire a tutti i costi una recidiva della guerra fredda tra Russia e Usa. Perché ciò farebbe entrare in scena le forze più reazionarie della Russia. E sarebbe una catastrofe». Ma ho l'impressione che in America ci siano anche circoli che puntano a ridimensionare ancora la Russia. «Forse, ma io ho incontrato solo gente seria». Comunque di caschi blu dell'Orni in Georgia non se ne parla. «Io dico che il Consiglio di sicurezza non può accettare di essere impotente. Il Segretario generale delle Nazioni finite è un politico rispettabile, ma capisce poco i problemi del Caucaso. Anche il mondo li conosce poco e quando se ne renderà conto sarà tardi. Qui è peggio che nei Balcani». Comunque gli americani non verranno. Bill Clinton è stato chiaro. Lei accetterebbe i caschi blu russi? «Io ho elencato tre varianti. Quella classica, con partecipazione di più Paesi, tra cui la Russia, non importa se avrà il 30 per cento o più del contingente di pace. Seconda variante: contingente russo sotto l'egida dell'Onu. Ma dubito che il Consiglio di sicurezza accetterà. Terza variante: chiedere alla Russia di intervenire e all'Onu di inviare osservatori. Se falliscono tutte e tre ci sarà la guerra con l'Abkhazia». E l'ipotesi di un contingente delle Nazioni Unite senza russi? «No, aprirebbe un confronto tra Russia e Onu. Sarebbe comunque la guerra. Senza Russia non è possibile alcuna regolazione definitiva del conflitto. Anzi, oggi riconosco amaramente il mio errore. Quando gli abkhazi attaccarono, i russi mi dissero: "Interveniamo con le nostre divisioni e mettiamo ordine". Rifiutai perché ero convinto che avremmo difeso da soli Sukhumi. Sbagliai, avrei dovuto acconsentire». Si è mai pentito della scelta di tornare? «So che è stata una follia. Ma sapevo cosa mi aspettava. Questo è il mio Paese e voglio condividerne il destino». Si dice che è diventato religioso... «Sono un credente. Lo sono sempre stato in fondo all'anima anche se l'ideologia comunista me lo impediva». E quali sono i suoi rapporti con Gorbaciov? «Telefonici, anche se negli ultimi tempi piuttosto radi. L'ho sempre rispettato. E' un grande uomo, un protagonista di tutti questi cambiamenti. Abbiamo anche avuto momenti di dissenso, ma questo non riduce i suoi meriti». Certo che è stato lui a cambiare la sua vita. «Sì. Fu una sorpresa. Mi telefonò annunciandomi che mi avrebbe proposto per un'alta carica di politica estera. Ma senza dirmi quale. Risposi che non avevo esperienza. In realtà pensavo che volesse propormi come segretario del Comitato centrale per la politica internazionale. Invece il giorno dopo mi richiama e dice chiaro: "Proporremo a Andrei Gromyko una nuova funzione di tutto rispetto". Replicai ancora che lo ritenevo un errore e che ministeri come la Difesa, gli Esteri e il Kgb potevano essere occupati solo da un russo. Aggiunsi che io non potevo essere solo un esecutore. Ma lui aveva già parlato con tutto il Politbjuro e la decisione, di fatto, era già stata presa». A posteriori come la giudica? «Ricordo che arrivai la prima volta al ministero da solo. Non c'ero mai stato. Dissi al collegio: "Gromyko era come una grande nave nell'oceano e, rispetto a lui, Eduard Shevardnadze era solo un battello. Ma col motore". Risero tutti. Cominciò così. E si presero decisioni difficili, sull'Afghanistan, sui missili di teatro, su quelli strategici. All'inizio fu facile, poi cominciarono gli attacchi e si dovette lottare. Ma in quelle decisioni si vedeva già bene la calligrafia di Shevardnadze. Era entusiasmante vedere che oggi dicevi una cosa e domani era già un fatto reale. L'Occidente ci venne incontro. Furono momenti grandi, storici. Sono stati gli anni più belli della mia vita». Giuliette Chiesa Sapevo che tornare sarebbe stato folle Ma il mio posto è qui Se non ci fosse stato l'aiuto della Russia e dei Paesi europei oggi saremmo minacciati dall'estinzione ato sia ggi ati ne lo Stato. E c'è scito. Forse non è scito a dare ganzie democratie. Terrò conto de errori altrui». Lei ha scelto Eltsin e i democratici moscoviti come suoi allea¬ chiare sull'ex Unione Sovietica? «Stanno analizzando la situazione. Non posso dire che capiscano tutto, ma spesso nemmeno catastroMa hin AmcircomensRussi«Forse, solo genComudell'Ose ne«Io dicocurezzaessere irio genfinite è «Io ho Quella pazioneRussia,30 per gente driante: to l'egidche il Caccetterchiedervenire eservatotre ci sbkhaziaE l'ipgentesenza«No, aptra Rusmunquesia non golazionflitto. amaramQuandono, i ruveniamni e metai percavremmkhumi. acconseSi è scelt Shevardnadze con Gorbaciov quando era ministro degli Esteri