Massacrato perché «tradì» il boss di Fulvio Milone
Massacrato perché «tradì» il boss L'imprenditore avrebbe segnalato alla polizia l'auto usata da D'Alessandro durante la latitanza Massacrato perché «tradì» il boss Napoli, la camorra lo riteneva colpevole della cattura PUNITO PER UN SOSPETTO NAPOLI. Una condanna a morte pronunciata sulla base di semplici sospetti. Ai killer di «don» Michele D'Alessandro, capo della camorra di Castellammare di Stabia, un Comune costiero a Sud di Napoli, sarebbero bastati quattro labili indizi per ritenere un uomo confidente della polizia, e quindi metterlo a tacere con sei colpi di pistola sparati alla schiena. La vittima era un imprenditore edile di 69 anni, Mario Cinque, assassinato sabato scorso davanti a un'autorimessa nei pressi della sua abitazione, a Castellammare. La vicenda che si è conclusa con la sua morte mota attorno ad una Mercedes nera a bordo della quale il boss D'Alessandro, arrestato tre settimane fa, era solito viaggiare durante la sua lunga latitanza. Un tribunale della mala, dopo un'istruttoria sommaria, avrebbe deciso che a far catturare il capo della mala era stato proprio l'imprenditore edile, sospettato di aver segnalato alla polizia il numero di targa dell'auto. In base a quali elementi sarebbe stata pronunciata la condanna a morte? Primo indizio: alcune settimane fa Mario Cinque aveva protestato per la presenza della Mercedes nell'autorimessa della quale era proprietario, ordinando ai garagisti di non consentire più il parcheggio delle macchine del capo camorrista. Secondo indizio: da una finestra dell'abitazione della vittima si possono seguire tutti gli spostamenti delle auto che entrano ed escono dal garage. Terzo indizio: la Mercedes veniva spesso usata da Michele D'Alessandro durante la latitanza. Quarto e ultimo indizio: l'imprenditore era amico di alcuni funzionari del commissariato di polizia, ai quali chiedeva spesso la scorta quando, a fine mese, consegnava gli stipendi agli operai. Tre settimane fa gli agenti della questura di Napoli hanno arrestato «don» Michele, che per circa un anno si era nascosto in un appar¬ tamento alla periferia di Napoli. Chi ha tradito il boss denunciando i suoi spostamenti alla polizia? I sospetti della mala si sono subito concentrati su Mario Cinque, l'imprenditore che proprio in quei giorni non si era preoccupato di protestare per la presenza dell'auto nella sua autorimessa. Chi se non lui, amico dei poliziotti, avrebbe potuto rivelare gli spostamenti della Mercedes e segnalato il numero di targa agli investigatori? I funzionari della questura che hanno catturato il latitante smentiscono di aver mai ricevuto da Mario Cinque informazioni utili sul conto di D'Alessandro: «L'arresto - assicurano - è stato eseguito grazie ad una paziente indagine di polizia». Eppure è bastato un semplice sospetto perché il clan decretasse la morte dell'imprenditore, accusato di una colpa che la malavita non perdona: la delazione. Fin qui, l'ipotesi formulata dai carabinieri che indagano sull'omicidio di Mario Cinque, crivellato di proiettili da due sicari che hanno agito con i volti coperti da caschi da motociclisti. La vittima è stata colpita alla schiena, come si uccide un «infame», uno che ha tradito. Poco il delitto, gli inquirenti hanno interrogato e arrestato per falsa testimonianza i gestori dell'autorimessa: Antonio Esposito con il figlio Francesco e il cugino Vincenzo, e Domenico Vetro, ritenuto un uomo della banda di D'Alessandro. Fulvio Milone
Persone citate: Antonio Esposito, D'alessandro, Domenico Vetro, Michele D'alessandro
Luoghi citati: Castellammare, Castellammare Di Stabia, Napoli
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