Un grandissimo del '900

Un grandissimo del ^900 Una mostra fiorentina ripercorre la storia di un artista controcorrente Un grandissimo del ^900 Licini pittore ribelle e solitario PFIRENZE ROVATE a guardare, nel ricco catalogo Artificio, l'illuminante fotografia della I premiazione alla Biennale del '58: stanno tutti allineati, lo scultore Mastroianni, Chillida e altri artisti, lo sguardo un po' spento ed imbronciato degli scolari che attendono il voto. Licini, no: un tiepido scialletto alla Mallarmé posato sulla giacca, la gessosa capigliatura da Geppetto ed il bastone da eterno pellegrino, con sopra le mani pesanti da bracciante della pittura, irrequieto, lui rompe le righe dell'immagine, sfuggendo lo sguardo dell'obbiettivo. Sta discosto, comunque, c non allineato, come sempre. Come la sua pittura: ribelle ed erratica. Pronta a salpare. Lo dimostra ancora una volta la raccolta retrospettiva, che s'è aperta il giorno 22, centenario della sua nascita, al fiorentino Palazzo Medici Riccardi (sino al 15 maggio). Senza novità, rispetto a quelle visitate con entusiasmo negli ultimi anni, Ferrara, Acqui, Urbino, Venezia: ma concertata con misura, nella speranza finalmente che il pubblico (che si genuflette per Kandinskij o Klimt) si renda conto che Licini è un grandissimo del Novecento, non soltanto italiano. Qualcuno, naturalmente, ha già incominciato a lamentare che questa fiorentina eccederebbe con il primo periodo figurativo, che effettivamente ad un tratto Licini stesso volle «mettere in soffitta», tutto preso dalle sue nuove invenzioni lunari, dalle sue «larve antiutilitarie». Ma non è giusto. Intanto perché nei suoi perfetti congegni geometrico-bachiani, sulle sue meravigliose Amalasunte, sibille della notte, o sui fumiganti Olandesi Volanti, è difficile tornare ogni volta a ridire le stesse cose ammirate: meglio stendervi sopra quel velo, non pietoso, ma glorioso, con cui egli intrappolava gli scheletri amorosi di paesaggi marchigiani, ancora pregni di umori lotteschi, e di bestemmiate rabbie, alla Bartolini. Quel cellophane sentimentale con cui ricopriva i crinali donneschi delle sue colline. Tanto più che lui stesso l'ha suggerito, una volta per tutte, categorico come sapeva essere, dopo tanti silenzi titubanti: «L'arte è per noi di natura misteriosa e non si definisce. Confessiamo pure che la bellezza sfuggirà sempre ai nostri calcoli». Ma geniale era anche la sua pittura figurativa Anni Dieci, per cui, prima ancora di scoprire l'adorato Matisse, scriveva: «Faccio del paesaggio arabesco». Fin da quel suo formidabile Autoritratto che sembra biaccato da un tonalismo alla Morandi (e che lui volle caparbiamente riavere indietro dall'antico amico, che ora gli sembrava soltanto «mettere in riga un reggimento di Morandi tutti uguali, disciplinati, dentro una pioggerella fine, uggiosa») ma con due occhi infingardi e spavaldi, da far saltar in aria la pittura educata di quegli anni («occhi da puledro impazzito» dirà a Parigi l'amico Tozzi). Era già a Parigi nel '17 (e non nel '19, come sembrerebbe lasciar credere il catalogo), se assiste alla leggendaria prima di Parade e difende Cocteau dagli attacchi dei tradizionalisti, con il suo bastone da invali¬ do di guerra. Qui Licini poteva incontrare Kisling, litigare con Modigliani che urlava «il paesaggio non esiste». Ma si scambiavano le scoperte come figurine. Il marchigiano recitava Leopardi e Campana, il livornese gli faceva assaggiare i «canti del cielo» di Rimbaud. Del resto, nei primi testi letterari di Licini (che Lacerba rifiuterà, perché troppo coprolalia) invece di posarsi la bellezza sulle ginocchia, l'alter ego Bruto finirà per tenere il cuore in mano, accarezzandoselo, senza riuscire a regalarlo a nessuno. Ora, vedere Parade significa frequentare i Ballets Russes, conoscere la Gontcharova e ascoltare le marcettc insolenti di Auric e Milhaud, magari riflettere sulle acerbe androginie della Laurencin. Come dimostrano le prime sue «vignette» monocrome., non poi così lontane dalla cartellonistica satirica di Sironi. Anche se nel famoso questionario Scheiwiller del '29, alla domanda che pensa del discusso Novecento italiano, di sarfattiana obbedienza, risponde: «Né bene, né male». Perché lui è sempre altrove, isolato, pallidamente ironico nei confronti delle scuole («depravato di provincia» come avrebbe detto Delfini). E qui, in quel melanconico schioppo del cacciatore, che si perde nell'innocenza rosata d'una foresta di fiorelloni quasi quinta teatrale, o in quel correre frenato dei pattinatori, che paiono intrappolati dal ghiaccio, pare forse suggerirci una canzone parodica sulle tumultuosità motorie dei compagni cubo-futuristi. E che curioso quel para-cubismo da storiette classiciste, quel disegno a formelle, che concerta in quattro comparti - quasi un doloroso trompe-l'oeil - le memorie belliche di un interventista deluso, sfogliate come taccuini di guerra gaddiani: le ombre portate dei militi in mantellina, che sfilano come millepiedi facinorosi. Ma c'è un quadro illuminante, quello del Pastorello, datato 1925 (e molto ci sarebbe da obiettare su certe date presunte): una sagoma smarrita, come staccata dallo sfondo, con i colori che si prendono una vacanza e si ribellano al loro mestiere di diligenti «riempitivi». E' un'avvisaglia: anche negli omaggi a Nanny - quello che assomiglia ad un autoritratto di Carlo Levi, per esempio - i colori si staccano dalle forme, si rapprendono in filini sommari, lasciando respirare quei bianchi pastosi ed iperventilati, che fanno pensare a Malevic. Come dei pullover di lana messi in lavatrice: si restringono, ingraciliti. E' una Caporetto della materia, una vera secessione dei colori. Ma anche negli anni degli Angeli ribelli e delle Amalasunte quante volte i colori fanciulli sembrano riluttare a riempire le forme, si scoprono magicamente refrattari alla tela, coinvolti anche loro nelle baruffe celesti ed acrobatiche dei mephisti lumacosi e di quelle lunependentif, che certo non evocano caste dive belliniane ma macariane signorine da bordello. Ancora, lapidario, nel questionario «Che intende lei per Arte Moderna?»: «Forma-colore-sentimento umano: Poesia». Il colore si fa ritmo, musica, collante sintattico d'una grafia che dissemina segni («non sogni») d'una grammatica smarrita: lettere alfabetiche e segnali che non conducono da nessuna parte. Importanti quelle nature morte sbilenche, tovaglie tappezzate quasi paesaggi, che mostrano com'egli stemperasse (tra Dufy e Marquet) la passione per Cézanne, che colpisce tutti, in quegli anni, come la spagnola. Interessanti quegli Arcangeli di transizione, i cieli sulfurei accesi di sterco giallognolo, tra nuvolaglie aggressive e luciferine apparizioni. Quegli angeli ribelli che gravano sui cieli fanno pensare ad un Tintoretto negato ai miracoli (San Mar...co suggerirà un titolo più recente): ma certo quelle brutali montuosità provengono direttamente da Derain. Licini non conosce legge di gravità: Barone di Mùnchhausen s'intitola un'opera tarda. I suoi angeli prokofieviani (i nasi-trombetta) si sollevano da soli, per i capelli della fantasia: vanno alla deriva, dentro suoi cieli interiori, magnifici astucci dell'immaginario: Klee, Cocteau, Jacob, Benjamin, Angelus Novns e Rilke, con gli Arcangeli «prima nota del Tremembo». Il colto Licini - folgorato sulla via di Goteborg da un Rembrandt che lo innamora, «Veronese nero» - lui che legge la rivista di Bataille, Documents, che va a Salisburgo nel '54 per ascoltare Wozzeck, che divora nel '26 il Gusto dei Primitivi di Venturi, a Piero preferisce il Sassetta: i suoi angeli risucchiati come da un aspirapolvere celeste (quell'equivoco bellissimo d'un quadro, già gotico-surreale, che si scoprì essere la parte superiore ritagliata d'un antico dipinto). Ma importa quel bisogno assoluto di un oltre iperossigenato, vuoto di ogni umano mimetismo. «Dimostreremo che la geometria può diventare sentimento, quanto più interessante di quella espressa dalla faccia dell'uomo». Legge anche Nietzsche, sicuramente, ma di quell'eroico Superuomo che sta in bilico, come una corda tesa, tra l'umano e la belva conserva soltanto il filo funambolico, palazzeschiano. Salta di là, in un mondo ariostesco, dove non si va a ricercare il senno perduto, ma ci si dondola, indolenti e disperati, sull'irrazionale. E' questo il suo miracolo: far danzare l'astrattismo meticoloso e prestiberiano dei Mondrian, far sobbalzare anche il Kn di Carlo Belli. «L'importante è che la pittura sia geniale. Bugie capaci di tenersi ritte, bugie capaci di fermare i treni». Marco Val loia «L'importante è che la pittura sia geniale: bugie capaci di fermare i treni» vi : *. •*/ . 'j? Qui accanto, «Amalasunta», un'opera del 1950. Sopra, un quadro giovanile: «Nudo», del 1925 Ammirava Matisse litigò con Modi difese Cocteau dai tradizionalisti

Luoghi citati: Parigi, Salisburgo, Sassetta, Venezia