RAPA NUI la fine del mondo in miniatura di Maurizio Assalto

Mentre arriva il film prodotto da Kevin Costner, parla l'archeologo che ha scoperto la vera storia dell'Isola di Pasqua Mentre arriva il film prodotto da Kevin Costner, parla l'archeologo che ha scoperto la vera storia dell'Isola di Pasqua RAPA NUI laflne del mondo in miniatura BRESCIA DAL NOSTRO INVIATO Quando si imbatte nella piccola isola sperduta in mezzo al Pacifico, dopo settimane in cui non aveva visto che mare e cielo senza nubi, al navigatore olandese Jacob Boggeveen apparve uno spettacolo singolare: una terra sub-tropicale, benedetta da brevi ma intense piogge quotidiane, eppure assolutamente spoglia di alberi, coperta soltanto da erbe e cespugli. E da centinaia di gigantesche statue antropomorfe rovinate al suolo, oppure in piedi, interrate fino al collo. Era l'anno del Signore 1722, domenica di Pasqua. L'esploratore non ebbe difficoltà a trovare il nome per la sua scoperta, che da allora fu conosciuta come Isola di Pasqua. Ma per gli indigeni era sempre stata, e continua a essere, Bapa Nui, l'«isola grande»: appena 118 km quadrati, la metà dell'Elba, «grande» però in rapporto ai tre scogli minuscoli che affiorano davanti alla sua punta sud-occidentale. La costa del Cile dista 3747 km, dalla parte opposta, Tahiti è a 4050 km; sopra e sotto, soltanto mare. Bapa Nui, il posto più lontano del mondo, l'isola più isolata, la terra abitata più remota da ogni altra terra abitata. Come poterono giungere fin lì i primi occupanti? Che effetti produce un isolamento millenario sul comportamento sociale degli uomini? Quali risultati conseguono all'inevitabile rottura degli equilibri ambientali determinata dalla presenza umana? L'Isola di Pasqua, al di là dell'interesse archeologico, ci appassiona proprio per la sua prerogativa di perfetto microcosmo, di grande laboratorio in cui il macrocosmo ha sperimentato ciò che potrebbe succedere in seguito all'irruzione perpendicolare, in un ecosistema stabilizzato, di un agente culturale-parassitario che manipola e sfrutta intcsivamente le risorse naturali. Ossia: l'Isola di Pasqua come modello della fine del mondo. E' con questo spirito che Giuseppe Orefici si è accostato allo studio di Bapa Nui: direttore del Centro italiano di studi e ricerche archeologiche precolombiane, da 12 anni impegnato negli scavi dell'antichissima civiltà di Nasca, in Perù, fra il '90 o il '93 ha guidato le tre missioni organizzate nell'Isola di Pasqua dal Centro studi Ligabue di Venezia. E' la prima volta che un gruppo italiano ha operato nella lontana isola del Pacifico, nell'ambito di un ambizioso progetto finanziato in gran parte dalla ladano, multinazionale giapponese delle gru, a cui partecipano anche studiosi nordamericani e cileni. «Si tratta di ripristinare il grande centro cerimoniale di Tongariki, spazzato dal maremoto del 1960 - spiega Orefici -. Ma noi non ci occuperemo della ricostruzione: il nostro compito è consistito nel recupero e nella catalogazione dei materiali. Adesso ci sposteremo sulle Isole Marchesi, seguendo a ritroso il filo del popolamento polinesiano». Come primo risultato, il lavoro dei nostri archeologi ha definitivamente fatto giustizia della tesi prò- spettata quarantanni fa da Thor Heyerdhal, che sostenne la provenienza sudamericana. «Purtroppo il terreno dell'isola è molto acido, quindi la conservazione dei corpi ò molto difficile - osserva Orefici -. Nel nostro scavo abbiamo recuperato 150 sepolture, tutte piuttosto tarde, fra il XVII e il XVIII secolo: ma tutte di ceppo polinesiano, come ha dimostrato l'esame del Dna. Nelle isole del Pacifico il modello di diffusione seguiva alcune costanti: quando il figlio maggiore del capo, l'ariki, verso i 25 anni succedeva al padre, gli altri figli con i rispettivi clan, non meno di 100-150 persone, lasciavano l'isola natale e andavano in cerca di terre vergini». A Bapa Nui, così sperduta oltre ogni orizzonte concepibile, probabilmente si approdò per caso, spinti dalle turbolenze marine. E fin dal principio i superstiti dovettero avvertire il senso del proprio isolamento, la nostalgia della patria perduta, la consapevolezza che le porte del mare si erano richiuse alle loro spalle per sempre, e loro erano prigionieri in mezzo all'Oceano. La tradizione trascrive questo sentimento in termini mitici, quando racconta dell'ariki Hotu Matu'a giunto da Hiva con due grosse imbarcazioni, che dopo avere sconfitto l'invidioso fratello Aroi, e dopo essersi ritirato in solitudine sulle pendici di un vulcano, sentendosi prossimo alla fine aveva chiamato intomo a sé i figli, poi era salito su una roccia e rivolgendosi un'ultima volta nella direzione della patria lontana aveva lanciato un grido. Dal mare infinito salì il canto di un gallo, che gli rispondeva da Hiva. Il vecchio ariki morì sereno. La realtà non dev'essere troppo lontana dalla leggenda. «Le più antiche tracce di una presenza umana organizzata - spiega Orefici -, risalgono al 620 circa, quindi il primo insediamento si deve retrodatare di un paio di secoli. Ma l'origine non è certa, perché soltanto nelle Marchesi ben tre isole si chiamano Hiva. Nella sua piccola arca di Noè, Hotu Matu'a o chi per lui portò alcune galline e qualche topo, di cui i Bapa Nui verosimilmente si cibavano. Di recente la spiaggia corallina di Anakema ha restituito quelle che parrebbero ossa di cane: forse i coloni avevano con sé anche questo animale, e se ne nutrirono così ingordamente da portarlo presto all'estinzione. Per il resto erano provvisti di un tubero chiamato igname, di un cereale noto in Polinesia come taro, probabilmente delia pianta della banana e della canna da zucchero. Non si può dire quale flora trovarono nell'isola, perché l'arrivo degli europei con i loro animali ha prodotto un'invasione di erbe infestanti che ha reso indecifrabile la situazione di partenza. Certo l'ambiente originario era ben diverso da quello che apparve al capitano Boggeveen: nessun fiume, causa la porosità del suolo, ma una vegetazione lussureggiante, favorita dal terreno vulcanico e da una umidità molto maggiore, trattenuta dagli alberi tropicali». Che cosa era accaduto nel frattempo? Nella storia di Bapa Nui, ricostruisce l'archeologo, si distinguono due grandi periodi. «Il primo è quello cosiddetto Ahu Moai, che prende il nome dai grandi monumenti per cui l'isola è nota: è una lunga fase teocratica - caratterizzata dalla pax intertribale, da una assoluta cristallizzazione culturale, dalla stabilità nei meccanismi di produzione, controllo e distribuzione del- le risorse - che dura oltre mille anni, fino al XVII secolo. In tutto questo tempo non si osservano variazioni né nella vita associata, né nei modelli artistici o nell'oggettistica quotidiana. L'organizzazione sociale si basava su una serie di tapu (da cui la nostra parola tabù) che vietavano per esempio di percorrere certi tratti di mare, o di calpestare determinate zone riservate all'ariki, a cui anche erano destinate le uova di testuggine e la carne di tonno. Tuttavia la caccia era così intensa che alla fine le testuggini presero a evitare le coste di Bapa Nui, e alcune specie di uccelli si estinsero. Il cannibalismo era già allora una pratica rituale e alimentare diffusa. Ancora oggi i più vecchi fra i Bapa Nui ricordano che i loro nonni si cibavano di carne umana». La vita si svolgeva all'aperto, le case - grandi abitazioni a forma di carena rovesciata, ricoperte di canne e erba - erano fatte solo per dormire, mentre le costruzioni di gran lunga più importanti, interamente di pietra, erano i pollai. Durante il periodo teocratico la principale attività degli isolani pareva consistere nella costruzione dei giganteschi moai, le statue degli antenati, direttamente scolpiti nelle colline di tufo e gradualmente staccati dalla roccia, fatti scivolare in basso e portati in prossimità dei centri abitati: qui venivani innalzati su possenti basamenti basaltici (ahu) e completati con una imponente acconciatura di scorie rosse (pukao) e con occhi di materiale corallino, in modo da riversare sull'abitato la forza protettrice del loro mana. Alcuni moai sono pesanti fino a 100 tonnellate, il trasporto per vari chi¬ lometri richiedeva l'impiego di un centinaio di persone e il sacrificio di un gran numero di alberi. Una sessantina di moai sono stati ritrovati interrati fino al busto a Bano Baraku: «Già terminati, pronti a essere trasportati altrove. E io credo - ipotizza Orefici - che fossero esposti lì come in vetrina, in attesa che si facesse avanti un clan interessato a farlo suo». Ma il compratore non venne mai, perché di colpo accadde qualche cosa. Il passaggio al secondo periodo di Bapa Nui è repentino, quando la pressione demografica a lungo tenuta sotto controllo arriva al punto di esplosione. Nella fase Huri Moai quella in cui è ambientato il film dell'accoppiata Costner-Beynolds si passa a un regime oligarchicomilitare, a devastanti lotte tribali, all'abbattimento dei moai, sostituiti con il culto del Tangata Manu, l'Uomo Uccello, e di un'antica divinità guerriera, Make-Make. Le foreste scampate allo sfruttamento precedente cadono consumate dagli incendi appiccati per vendetta. Il saccheggio delle risorse naturali, accelerato dalla crisi politica, porta al collasso. Il «contatto» con gli europei, che presto si tradurrà in una delle tante storie di colonialismo e deportazione, è l'ultimo stadio della catastrofe, ma insieme anche una tragica, paradossale via di salvezza. A metà '800 i Bapa Nui sono ridotti a un centinaio di disperati, poi nel 1888 l'isola è acquistata dal governo cileno con l'impegno di desistere dalle deportazioni. Oggi ci vivono circa 2600 persone. Il turismo dà loro di che vivere agiatamente con poco lavoro, ma la noia è in agguato: «Il weekend comincia il giovedì pomeriggio e finisce il lunedì - testimonia Orefici -: per quattro giorni le strade si riempiono di gente ubriaca». Anche l'arrivo della troupe che ha girato il film è stato traumatico: «Per tutto il tempo della lavorazione, i nostri operai ci piantavano in asso per andare a fare le comparse. La vita di tutta l'isola ha gravitato intorno al film, i prezzi sono cresciuti senza più ribassarsi, le automobili, che prima erano 40, ora sono 200». Eppure Bapa Nui, sopravvissuta alla catastrofe ambientale, alle guerre fratricide, al giogo schiavista, riprende a respirare: la purezza originaria è persa per sempre, ma le foreste tornano a diffondersi, la natura ha di nuovo un futuro. La tragedia degli ultùni secoli si è risolta nelle prove tecniche della catastrofe possibile che incombe sulla Terra. Con una differenza, però: che fuori di Bapa Nui la vita era comunque garantita nel resto del mondo; fuori del mondo, dove mai potrà riprodursi? Maurizio Assalto I In 1500 anni gli abitanti han distrutto tutte le risorse I Le grandi statue rituali dell'isola e, alla destra, una scena del film grandi monumenti per cui l'isola è nota: è una lunga fase teocratica - caratterizzata dalla pax intertribale, da una assoluta cristallizzazione culturale, dalla stabilità nei meccanismi di produzione, controllo e distribuzione del- giovedì' la prima E nel '95, grande mostra Rapa Nui, il film prodotto da Kevin Costner e dalla Bcs Video, uscirà giovedì in Italia in prima mondiale. Diretto da Kevin Beynolds e interpretato da Jason Scott Lee, Esai Morales e Sandrine Holt, racconta la storia d'amore fra due giovani divisi dalla casta, sullo sfondo delle tragiche lotte che insanguinarono l'Isola di Pasqua 42 anni prima del «contatto» con gli europei. L'isola del Pacifico sarà di nuovo sotto i riflettori a inizio '95 per una grande mostra organizzata al Palazzo Beale di Milano dal Centro studi Ligabue. tensa che alla fine le testuggini presero a evitare le coste di Bapa Nui, e alcune specie di uccelli si estinsero. Il cannibalismo era già allora una pratica rituale e alimentare diffusa. Ancora oggi i più vecchi fra i Bapa Nui ricordano che i loro nonni si cibavano di carne umana». La vita si svolgeva all'aperto, le case - grandi abitazioni a forma di carena rovesciata, ricoperte di canne e erba - erano fatte solo per dormire, mentre le costruzioni di gran lunga più importanti, interamente di pietra, erano i pollai. Durante il periodo teocratico la principale attività degli isolani pareva consistere nella costruzione dei giganteschi moai, le statue degli antenati, direttamente scolpiti nelle colline di tufo e gradualmente staccati dalla roccia, fatti scivolare in basso e portati in prossimità dei centri abitati: qui venivani innalzati su possenti basamenti basaltici (ahu) e completati con una imponente acconciatura di scorie rosse (pukao) e con occhi di materiale corallino, in modo da riversare sull'abitato la forza protettrice del loro mana. Alcuni moai sono pesanti fino a 100 tonnellate, il trasporto per vari chi¬ gi ci vivono circa 2600 persone. Il turismo dà loro di che vivere agiatamente con poco lavoro, ma la noia è in agguato: «Il weekend comincia il giovedì pomeriggio e finisce il lunedì - testimonia Orefici -: per quattro giorni le strade si riempiono di gente ubriaca». Anche l'arrivo della troupe che ha girato il film è stato traumatico: «Per tutto il tempo della lavorazione, i nostri operai ci piantavano in asso per andare a fare le comparse. La vita di tutta l'isola ha gravitato intorno al film, i prezzi sono cresciuti senza più ribassarsi, le automobili, che prima erano 40, ora sono 200». Eppure Bapa Nui, sopravvissuta alla catastrofe ambientale, alle guerre fratricide, al giogo schiavista, riprende a respirare: la purezza originaria è persa per sempre, ma le foreste tornano a diffondersi, la natura ha di nuovo un futuro. La tragedia degli ultùni secoli si è risolta nelle prove tecniche della catastrofe possibile che incombe sulla Terra. Con una differenza, però: che fuori di Bapa Nui la vita era comunque garantita nel resto del mondo; fuori del mondo, dove mai potrà riprodursi? Maurizio Assalto Le grandi statue rituali dell'isola e, alla destra, una scena del film

Luoghi citati: Bapa Nui, Brescia, Cile, Italia, Milano, Perù, Venezia