Everett un amore di horror di Masolino D'amico

L'attore-modello di Dylan Dog protagonista del film dal romanzo di Sciavi L'attore-modello di Dylan Dog protagonista del film dal romanzo di Sciavi Everett, un amore di horror Nel cimitero dei morti viventi Il dramma di Euripide del regista Castri Un'irriverente Ifigenia s'aggira in veli bianchi Anche la Parodia dell'Opera Lirica nel disperato tentativo di far ridere TORINO. «Voglio faro il pioniere, aprire la strada ad altri giovani meno fortunati di me che vivono nelle mie stesse condizioni. La strada che porta alle scene è preclusa a chi non vede, ma bisogna aver coraggio». Andrea Boccili, 35 anni, tenore, vincitore a Sanremo nella categoria debuttanti con «Il mare calmo della sera», l'altro ieri al Regio ha sostenuto un'audizione con il direttore artistico Carlo Major. Musicista nato (suona il piano, le percussioni e quasi tutti gli strumenti a fiato) non si ferma davanti alle difficoltà. Majer l'ha ascoltato con curiosa attenzione: «Ha una bolla voce da tenore, fresca, squillante. Sto pensando ad un progetto per lui, ma devo ancora lavorarci. Penso però che almeno una volta Bocelli al Regio canterà». Sarebbe - come dice lo stesso tenore - un grande esperimento: per la prima volta un cantante non vedente potrebbe muoversi in scena come un artista «normale». Che ruolo preferirebbe? «Cavaradossi. Non ho dubbi. E' il mio ruolo preferito e credo di avere "le fisic du róle". Così come per Rodolfo in "Bohème". Avrei però bisogno di due giorni per ambientarmi in palcoscenico, poi mi muoverei corno a casa mia. Pensi poi se mi si trovasse un ruolo da cavaliere. Lei forse saprà che io vivo in mozzo ai cavalli, ne ho domati tanti e sono un buon cavaliere. Non è una bizzarra illusione. All'Arena si potrebbe fare Aida». Bocelli, che a casa s'è fatto installare una sala d'incisione, ascolta da sempre il suo grande idolo: Franco Corelli. A Torino, l'anno scorso, seguendo al Circolo della Stampa il 2° Corso di Canto Lirico e da Camera della Regione Piemonte, diretto da Wally Salio, ha avuto modo di studiare anche con il celebre tenore anconetano, docente ospite insieme con Virginia Zeani. «Tra me e il maestro è sbocciato un idillio. Mi ha dato preziosi consigli. Con lui ho studiato a Milano, prima che partisse per New York. L'ho chiamato l'altra sera a telefono. Era felice del mio successo a Sanremo». Andrea Bocelli a fine maggio partirà per una tournée in Giappone con Katia Ricciarelli; poi terrà una serie di concerti negli UN horror esistenzialistaromantico fatto molto bene, capace di rendere quella nausea di vivere unita a un'ironia tiepida, quella distanza nel contemplare eventi atroci visti come del tutto naturali e quell'emozione dell'amore senza avvenire che hanno fatto di Tiziano Sciavi (il romanzo da cui il film è tratto è pubblicato da Camunia e Rizzoli) un idolo delle ultime generazioni lasciate fuori dalla società. Sciavi, si sa, ha già una leggenda: è quarantenne, nato a Broni e abitante a Milano, autorecluso, ossessionato dalla fobìa dei media e di ogni esposizione personale, ideatore del fumetto mensile dedicato a Dylan Dog «detective indagatore dell'Incubo», autore di romanzi, canzoni e ballate («Mostri», «Tre», «Sogni di sangue», «Nero.» da cui Giancarlo Soldi ha ricavato un film nel 1992, «Apocalisse», «Nel buio», tutti editi da Camunia). Ama raccontare la morte, i morti viventi e i vivi morenti, il vivere da ex e il morire senza rimpianti, dando a questa materia consueta dell'horror una assenza di spavento, una ovvietà pragmatica, una mancanza di drammatizzazione retorica che rivelano l'identità o la somiglianza tra il mondo dei sepolti e quello dei futuri sepolti. Rupert Everett, custode del cimitero della Buffalora con l'aiuto di un assistente muto e vorace, deve fronteggiare un assedio: dopo sette giorni alcuni morti, poi molti morti, poi tutti i morti, risorgono provocando catastrofi, e per togliere di mezzo questi Ritornanti occorre spaccar loro la testa con un'ascia o una pallottola. Dellamorte (è il cognome del becchino, di Torino, audizione al Re nome Francesco, mentre Dellamore è il cognome di sua madre), killer di cadaveri, lo fa con il fastidio di chi sia costretto a un lavoro straordinario, con indifferenza burocratica. Ogni tanto «si porta un po' avanti col lavoro»: va in paese e ammazza tutti quelli che trova. Ogni tanto, tra i fuochi fatui danzanti e azzurrini del cimitero, s'innamora, di vedove o di defunte che hanno il fascino sensuale di Anna Falchi e che magari vogliono fare l'amore nell'ossario. Ma, soprattutto, Rupert. Everett (che è l'attore-modello di Dylan Dog) riflette, pensa, resta inerte, guarda il cielo («Il maltempo s'è rimesso, finalmente»), sentenzia: «Viene un momento nella vita in cui t'accorgi di conoscere più morti che vivi»; «Più ridono di me e più mi stanno lontani: bene, non si è mai abbastanza diversi»; «Il tempo passa e le cose non sono mai uguali, sono sempre peg¬ gi Rupert Everett e Anna Falchi nei film « o per il cantante cieco trionfatore a Sanremo De gio». Dialoga con la Morte: «Siamo uguali, io e te: uccidiamo per indifferenza, a volte per amore, mai per odio». Scopre il segreto: «Ognuno di noi fa quello che può per non pensare alla vita». E quando decide d'andare a vedere il resto del mondo, scopre che il resto del mondo non esiste. Michele Soavi, 35 anni, già aiuto regista di Dario Argento, autore di «Deliria», «La chiesa», «La setta», ha saputo compiere benissimo l'esercizio di minimalizzazione dell'horror e quindi anche di se stesso, di raggelamento di quel genere flamboyant e barocco, ottenendo una visione d'orrore che appartiene all'universo dei vivi più che a quello dei morti, sottolineando l'ironia di Sciavi che diventa autoironia per il regista, divertimento per gli spettatori. llamorte Dellamore» Lietta Tornabuoni PERUGIA. Nell'«Ifigenia in Tauridc» la figlia di Agamennone miracolosamente scampata al sacrificio necessario per vincere la guerra di Troia vive sul Mar Nero come sacerdotessa di quella Artemide che la salvò; qui fra altri compiti deve giustiziare tutti i greci che vengano catturati. Ora arriva, a lei sconosciuto e col compito di trafugare un venerato simulacro di Artemide, suo fratello Oreste (perseguitato dalle Erinni per avere ucciso la madre adultera), col fido amico Pilade. Oreste e Pilade sono arrestati, e Ifigenia impietosita decide di salvarne uno a scelta: poi però riconosce il fratello, e allora fugge con tutti e due, e con la statua di Artemide. Ma le guardie del santuario bloccano i fuggiaschi... Anche dal breve riassunto sarà chiaro come il dramma di Euripide si discosti da quelli, contenuti e austeri, dei suoi predecessori, dove l'uomo è chiamato a inchinarsi davanti all'arcano della divinità. Il regista Massimo Castri ha voluto sottolineare questo imborghesimento, questa quotidianizzazione della materia: e a scanso di equivoci lo ha fatto prendendola in giro, con un piglio addirittura goliardico. In una fetta di deserto rosato da film sulla Legione Straniera, sotto un cielo azzurrissimo dominato da una gelatinosa luna mobile (scena di Maurizio Baiò, luci di Sergio Rossi: stupendissima l'una e le altre), l'Ifigenia di Annamaria Guarnieri si aggira come una arguta signora paludata in veli bianchi, irresistibilmente richiamante Valentina Cortese a una prima teatrale. I predatori che la raggiungono dal mare, ossia Oreste (Giulio Scarpati) e Pilade (Antonio Latella), con goffe valigie di forzature, non si presta a ironie di questo né di altro genere: e il suo contrasto con le gag architettate è accolto in sala da una incomprensione che si manifesta con un silenzio sempre più imbarazzato durante i 100' inesorabili minuti. Né salva la situazione il finale, dove il regista ricorre a quello che sono stato allevato a considerare il più disperato fra i tentativi di suscitare il riso a ogni costo, ossia la Parodia dell'Opera Lirica, leggi un concertato canoro su musiche di Arturo Annecchino. Insomma: serata tecnicamente pregevole, ma artisticamente disastrosa, e proprio sotto il profilo di quell'umanità che presumo si voleva mettere in luce, che ridotti a macchiette i personaggi non convincono, così come non consentono agli attori di emergere. Pazienza, capita nelle migliori famiglie. Non pensiamoci più. fibra, abiti moderni e molto stazzonati, e in testa (Scarpati) un fazzoletto con quattro nodi contro il sole - sono due clown maldestri; Toante (Franco Mezzera), il temibile custode del tempio, è un levantino con una divisa rubata a un ammiraglio inglese; il Messo (Tullio Sorrentino) è un moretto che saltella eccitatissimo; l'immagine sacra da involare è un bambinello negro coperto di trine, come quello recentemente rubato all'Ara Coeli; e Atena (Paola Della Pasqua), quando si manifesta «ex machina», è un angiolone da presepe appeso a un filo. Tanta irriverenza potrebbe risultare allegra e perfino liberatoria se fosse proposta a un pubblico nutrito di classici: ma lascia gelidi gli spettatori normali, perlomeno quelli del Morlacchi di Perugia dove l'allestimento rimarrà fino al 27 prima della tournée. Il fatto è che l'affidabile versione di Umberto Albini, porta con poche DELLAMORTE DELLAMORE di Michele Soavi con Rupert Everett Francois Hadji Lazaro Anna Falchi Stefano Masciarelli Horror Italia, 1994. Cinema Ambrosio 3, Eliseo Blu di Torino Astra di Milano Fiamma 1 di Roma Masolino d'Amico