«La guerra è finita parola di Aidid»

L'ex super ricercato dall'Onu spiega i suoi progetti dopo la firma dell'accordo fra le fazioni L'ex super ricercato dall'Onu spiega i suoi progetti dopo la firma dell'accordo fra le fazioni «La guerra è finita, parola di Aidid» «Ma adesso gli Stati Uniti devono pagarci i danni» SPERANZA PERLA SOMALIA mento per i danni multimiliardari causati da guerra e bombardamenti alle proprietà pubbliche e private. Solo questo sanerà le ferite». Lei crede che Clinton abbia imparato qualcosa su come muoversi in Africa? «Clinton non capisce i nostri problemi. Ma ora gli altri Paesi del Corno ci sostengono. Con essi stabiliremo buone relazioni e realizzeremo una cooperazione economica, politica e di sicurezza come quella dell'Unione europea. I passaporti saranno aboliti e ci saranno libere comunicazioni fra i popoli». Desidera ristabilire buoni rapporti con gli Usa? «Perché no? Ci serve il loro aiuto per la ricostruzione. Vogliamo che svolgano un ruolo di rilievo, così da impedire al segretario dell'Onu Boutros Ghali di creare nuovi problemi alla Somalia e farvi arrivare nuovi Caschi blu. Vogliamo che sia fondata una nuova struttura per gestire le risorse delle organizzazioni non governative di aiuto allo sviluppo, oggi male utilizzate o usate a fini utiliBWv tari- Non ci fidia¬ mo di Unosom per la gestione dell'assistenza umanitaria. Unosom continua a interferire negli affari interni della Somalia». La società tradizionale somala è stata descritta come «democratica fino all'anarchia». Lei ha visto all'opera questa democrazia da bambino? «Ogni cosa viene decisa adunandosi fuori, sotto gli alberi, e dando il via a una libera discussione. Da bambino ho assistito a molte dispute per questioni di eredità. Ci si dispone seduti in un triangolo e chiunque vuole parlare si piazza nel centro. Gli anziani ascoltano e memorizzano tutto senza prendere note scritte, poi si appartano per decidere. Se qualcuno dissente dal verdetto, ha la possibilità di appellarsi a un altro comitato di saggi. E se non basta, al capo del clan. Studiando il sistema giuridico americano ho scoperto che abbiamo molto in comune». Come è diventato militare? «Negli Anni Cinquanta mi sono arruolato e sono stato mandato due volte a Roma per addestrarmi. Nel 1958 sono diventato comandante della polizia di Mogadiscio. Sono stato responsabile della sicurezza delle prime elezioni municipali: ho dato ordine di stampare un segno nero a inchiostro sul dorso della mano di ogni votante, in modo che non potesse entrare una seconda volta in cabina. Dal '63 ho intrapreso per tre anni un addestramento militare ad alto livello presso l'accademia Frunze a Mosca. Imparare l'arte militare è stato bello, ma la dittatura del prole- LNAIROBI EI prevede che la guerra riesploderà dopo il 31 marzo, quando il ritiro Usa dalla Somalia sarà completo? «Non ci saranno nuovi combattimenti, questo glielo garantisco. L'Unosom (l'Onu in Somalia, ndr) e impegnato in una campagna di propaganda perché gli si diano altre truppe. Noi vogliamo che i Caschi blu se ne vadano alla data stabilita. Ad ogni modo, dall'accordo di Addis Abeba del 27 marzo scorso non ci sono stati più grossi scontri di fazioni. E le zone più pacifiche del Paese sono state quelle in cui Unosom non era presente con le sue interferenze e provocazioni». Come immagina la Somalia fra cinque anni? «Dopo che avremo formato il governo di transizione, elaboreremo un piano per le elezioni democratiche. Dobbiamo scrivere una nuova Costituzione e rifare la mappa delle regioni e dei distretti. La divisione amministrativa stabilita da Siad Barre - &,t l'ex dittatore, ' ■ sv ndr • era sbagliata. Nel perido di transizione, dovremo anche promuovere le autonomie politiche regionali e permettere alla gente di beneficiare di quello che produce grazie alla decentralizzazione, portando all'autosufficienza le singole popolazioni nell'ambito di una piena libertà di comunicare e di lavorare insieme. I vari popoli devono poter decidere da soli i propri progetti di sviluppo in campo economico, sociale e, naturalmente, politico, senza imposizioni dal centro. Il nuovo sistema politico sarà la Seconda Repubblica di Somalia e sarà fondato sulla partecipazione popolare». E lei ne sarà il presidente? «Non sappiamo chi sarà presidente, tanto più che le popolazioni del Nord sono ancora impegnate in discussioni. E' prematuro decidere se sarà questo o quell'uomo. Dobbiamo pensare in modo democratico e permettere alla gente di scegliere. La scelta spetterà al popolo». Che cosa è andato storto nella sua amicizia con gli Stati Uniti? Si sente tradito? Adesso le cose vanno meglio? «Se sua eccellenza il presidente Bill Clinton ammettesse che la politica degli Usa e dell'Orni in Somalia è stata un errore, se le operazioni militari venissero bloccate e se si raggiungesse un accordo politico, non ci sarebbero altri problemi. Naturalmente, la caccia all'uomo scatenata nei miei confronti mi ha fatto infuriare. Ma ora seguiamo una nuova politica per cui vogliamo dimenticare tutto e cooperare. Comunque, deve esserci un risarci¬ t v BW NAIROBI. A Nairobi, capitale del Kenya, i due signori della guerra somali Mohammed Farrah Aidid (a lungo ricercato dall'Onu e dagli americani per la strage dei Caschi blu pakistani) e Ali Mandi Mohamed, che si fregia del titolo di presidente, hanno siglato ieri un accordo di pace. L'intesa prevede un cessate-il-fuoco, il disarmo delle fazioni e una conferenza di riconciliazione nazionale a partire dal 15 maggio a Mogadiscio. Una riunione preliminare, il prossimo 15 aprile, tra le fazioni guerrigliere dovrebbe partorire un governo di transizione. Aidid e Ali Mahdi si danno battaglia dal gennaio del 1991, quando venne rovesciato il regime del presidente Siad Barre. A Roma, apprezzamento è stato espresso al ministero degli Esteri per l'accordo raggiunto a Nairobi. Un comunicato della Farnesina afferma che l'Italia «non mancherà di concorrere, non appena le condizioni lo consentiranno, al processo di riabilitazione economica e ricostruzione del Paese per la cui pacificazione non ha cessato di adoperarsi con coerente impegno». Poco prima della firma dell'accordo, Aidid ha espresso il suo cordoglio per la morte di Ilaria Al- pi e Miran Hrovatin del Tg3: «Abbiamo avviato indagini per identificare e punire i responsabili». Ieri un altro italiano, il dottor Pancrazio Stangona coordinatore amministrativo e delegato della Croce Rossa Italiana all'ospedale di Garoe, in Somalia, è stato fatto segno da colpi d'arma da fuoco, ai quali è riuscito a scampare, insieme a due infermiere dello stesso ospedale. Il dottore stava per prendere un aereo per Nairobi: assieme ai due piloti e a un altro membro della delegazione è stato anche temporaneamente sequestrato dalla banda armata somala. Il generale Aidid, che significa «vittorioso», ha 60 anni, e originario del Mudugh, regione dell'etnia Hawyie, e appartiene al clan degli Habr Gedir. Capo dell'Use (il Congresso dell'unità somala) dopo la sconfitta dell'ex presidente Barre ha visto insediarsi a Mogadiscio come presidente ad interim l'ex alleato Ali Mahdi, anche lui di etnia Hawyie ma del clan Abgal. Ha perciò scatenato una nuova guerra civile nel Paese. Nel giugno 1993, dopo il massacro di 23 caschi blu pakistani, l'Onu ha emesso contro Aidid un mandato di cattura, poi revocato. le. st.] e i rasai tariato era un incubo. Quando sono rientrato a Mogadiscio, il giovane sistema politico neocoloniale era già minato da corruzione e nepotismo. Nel 1968 l'allora ministro della difesa, Siad Barre, prese il potere grazie a un golpe incruento. Nei successivi vent'anni rovinò il Paese con il suo "socialismo scientifico". Era un uomo spietato. "Sono arrivato al potere con le armi e lo terrò finché qualcuno non me lo toglierà con le armi. E dietro di me non lascerò né un popolo, né risorse", mi disse una volta. E ha fatto proprio' così». Quando si è convinto che Barre doveva andarsene? «Dal primo giorno. Barre mi invito ad aderire al Consiglio supremo della rivoluzione. Quando proposi che il governo venisse affidato a tecnocrati civili mi fece imprigionare per sei anni, la maggior parte dei quali in isolamento. Quando uscii, Barre mi nominò direttore generale della Sanità. Nel 1977 entrammo in guerra con l'Etiopia per sottrarle la regione dell'Ogaden. Io fui posto a capo di un centro di reclutamento. Barre non voleva darmi un comando di truppe sul campo perché temeva un golpe. Andando in giro a reclutare soldati, imparai molte cose nuove sul mio popolo. Presi parte a un giudizio per stabilire il prezzo del sangue che una famiglia doveva a un'altra: un caso di omicidio e di furto di cammelli. Restammo isolati per cinque giorni, per cui non potevamo essere influenzati. Alla fine, anziché un risarcimento in denaro, fu deciso che una famiglia desse all'altra sei ragazze da far sposare, e la seconda facesse lo stesso con la prima. Così fu composto il dissidio. Quando la guerra finì, mi diedero l'incarico di organizzare il ritiro della prima divisione. Il 9 aprile 1978 ci fu un tentato golpe. Barre mi sospettò di complicità, per cui mi esautorò e mi nominò suo assistente militare, per potermi tenere sempre sott'occhio. Nel 1984 mi nominò ambasciatore in India per levarmi di torno. Qui studiai come gli indiani stavano affrontando i loro problemi, e mi convinsi che noi somali dovevamo cambiare modello, dall'Italia agli Stati Uniti. Abbiamo valori comuni nel campo dei diritti democratici e umani, e crediamo nella dignità degli altri. Lessi centinaia di articoli sulla Somalia e scrissi tre libri: uno sulla storia del Paese dalle origini, uno sul futuro che avrei voluto per la Somalia, e il terzo sulla mia vita». Lei che cosa legge? «Le mie letture preferite sono economia e futurologia. Ammiro in particolare Alvin Toffler». Perché la definiscono un «signore della guerra»? «Su questo si fa confusione. Nel 1990 il mio clan, gli Habr Gedir, mi fece suo "abatira", o padre della guerra, e mi mise a capo della lotta armata che conducevamo contro Siad Barre. Facendo assegnamento su armi e rifornimenti strappati all'esercito di Barre, liberai rapidamente la regione centrale del Paese. Barre concentrò le sue forze nel Nord e vi disfece l'opposizione, sperando con ciò di dare l'esempio anche al Sud. Fra 50 e 60 mila civili furono uccisi, e nel Nord ne furono così traumatizzati che nel maggio 1991 dichiararono la secessione dal resto del Paese». Lei conta di recuperare le popolazioni del Nord? «Dobbiamo aprire un dialogo e accettare il tipo di unione che preferiscono. Potranno avere un loro Parlamento, ma dovrà esserci un solo governo, come negli Sttai Uniti. 0 potranno vivere come regione autonoma. Tutto, purché si eviti la separazione. Ma dovranno anche avere garanzie costituzionali perché la ingiustizie subite sotto Barre non si ripetano». Che cosa farà per i tanti adolescenti armati che si vedono per le strade di Mogadiscio e altrove? «Li arruoleremo nella polizia, se in cambio cederanno le armi». E' stato lei a ordinare il 4 giugno l'attacco ai Caschi blu pakistani? «Non ci ho avuto niente a che fare». C'è chi dice che l'unica speranza di pace è che i suoi «Habr Gedir» si scelgano un altro capo. Si farebbe da parte se decidessero così? «Non ho fatto quello che ho fatto per diventare presidente, ma per liberare il mio popolo, a Dio piacendo». Quanti Habr Gedir sono stati uccisi dagli americani e dagli altri Caschi blu? «Fino a novembre, abbiamo avuto 13 mila fra morti e feriti. L'epidodio più grave è avvenuto il 12 luglio, quando fu attaccata una fattoria in cui i nostri anziani erano in riunione per decidere come accordarsi con Unosom. Settanta di loro furono uccisi. Questo è stato il punto di svolta nella nostra valutazione dell'intervento delle Nazioni Unite in Somalia. Tante cose sono state distrutte - le fabbriche di sigarette e di fiammiferi, i ministeri, persino le università -. Ci deve essere un risarcimento. Non dimenticheremo». Alex Shoumatoff Harold Marcus Copyright «N.P.Q.Los Angeles Times» e per l'Italia «La Stampa»