Spazzali contro Di Pietro fino all'ultima rissa

E L'AVVOCATO IL PIVI E L'AVVOCATO Spazzali contro Di Pietro fino all'ultima rissa MILANO. Ci voleva, per quest'ultima e quarantaduesima udienza. Ci voleva questo scontro, questa rissa a gesti e urla, con l'avvocato Spazzali dal grido gelido e Tonino Di Pietro dal grido furioso: «Qui le minacce al teste non le fa nessuno!». E Spazzali: «Ma chi le fa!?». Di Pietro: «Qui le minacce al teste non le fa nessuno, altrimenti mi tolgo la toga e me ne vado!». Si toglie la toga mentre Spazzali sibila: «Si tolga quello che vuole...!». Ma Di Pietro non se ne va, altre urla concitate, giugulari che si gonfiano, braccia che roteano, finché il presidente Tarantola riesce a riportar la quiete. Un brutto momento, visto in aula. Un bellissimo spettacolo, visto in tv con i telegiornali della sera. A provocar la rissa una figura all'apparenza secondaria come Leo Porcari, l'ombra di Raul Gardini, l'accompagnatore degli ultimi anni, il supervigilantes sempre presente. Ma è Porcari, in aula, a mettere una data alla fine dei rapporti tra Gardini e il duo Sama-Cusani: 18 novembre 1990. Come dire: in quel che è successo dopo, in miliardi finiti in tangenti o altro, Gardini non c'entra e per favore non tiratelo in mezzo. Non è poco, all'ultima udienza. E Spazzali insinua: ma come diavolo fa a ricordare così bene quella data, mica gliel'ha suggerita il qui presente dottor Di Pietro? Ecco spiegata la rissa ed ecco l'urlata rabbiosa. Ma ci voleva, alle undici del mattino. Ci voleva perché l'aula era un blocco di tensione, perché stava per arrivare Carlo Sama, perche forse sarebbero arrivati i tre giornalisti che dalle nove del mattino aspettano negli studi dei loro legali. In aula, ad aspettare in quello che nelle altre udienze di Tribunale è il recinto degli imputati detenuti, stanno i cronisti al seguito di questo processo. Ci sono colleghi, e anche amici, dei tre giornalisti in arrivo. Ci sono, è naturale, anche quelli che amici non sono. Non ci sono le grandi firme, tutti gli sguardi sono per scrutare Sama e poi Di Pietro e poi Spazzali. Che succederà, altre accuse alla categoria? Avrebbero potuto prendersi a ceffoni. Di Pietro e Spazzali, avrebbero potuto regalare al teleprocesso sequenze memorabili, l'ombra Porcari avrebbe potuto confessare delitti nefandi... Niente: tensione e attenzione dell'aula, del pubblico persino, erano altrove, più avanti di mezz'ora, alle 11,25 quando Sama, che ormai sa come ci si comporta in quest'aula, entra disinvolto, appende il suo trench all'attac- capanni del cancelliere, va a sedersi davanti al presidente Tarantola con il gomito sinistro appoggiato al bancone, un classico dei veterani d'aula, e sfila dal taschino gli occhialini con montatura tonda. E adesso, silenzio. Di Pietro, quasi rispettosamente, si volta al gabbione dei cronisti. Buon segno, brutto segno, boh? Ascolta Sama che svicola con un «mi assumo tutta la responsabilità, ma non vorrei allargare la roba». La «roba», per Sama, sono i nomi dei giornalisti. «Se mi consente, signor presidente, non vado oltre...». Nossignore. Qui Tarantola vuol quantomeno capire: è credibile questo Sama oppure no? Il processo (che è a Sergio Cusani) gira e rigira ruota in gran parte sulle dichiarazioni di Sama. Anche Di Pietro vuol capire: «Non voglio fare il difensore d'ufficio dei tre giornalisti, ma lei vuol far fare una brutta figura a tre galantuomini o no?». Sama non va oltre. Parla dei miliardi che aveva deciso di investire per promuovere l'immagine propria e del gruppo Ferruzzi abbandonato da Gardini: «Un progetto comunicazionale per il passaggio della leadership a una nuova squadra dirigenziale...». Sì, va bò, ma che ci azzecca? - come direbbe Di Pietro. Insomma, questi soldi ai giornalisti li ha dati sì o no? Ha prove, riscontri? «O si dice o non si dice!», insiste Di Pietro: «Mica posso fare un provvedimento perché l'ha detto Sama! Lei ha già messo la mano sul fuoco una volta, e s'è scottato! Si sta creando un gran polverone e magari vien fuori che i soldi se li è tenuti l'intermediario!». Quando tocca ai tre giornalisti, dopo la rissa e dopo novanta minuti di Sama, la tensione si è stemperata appena. Il presidente Tarantola come sempre è gentile, ma quella sedia ò troppo scomoda, c'è la tv che riprende e un giornalista non può certo dire: spegnetela. In aula non può che esserci la parola di Sama contro la parola dei tre giornalisti, tre no ben decisi. Spazzali rinuncia alle domande, e Di Pietro pure. Ai giornalisti non resta che chiedere tempi brevissimi, si sono autosospesi, Bertone entro tre giorni denuncerà Sama: «Se fossi un ricco imprenditore potrei aspettare, poiché vivo solo del mio stipendio non posso attendere oltre». Alla porta di Di Pietro, da oggi, busseranno gli avvocati dei tre giornalisti. Hanno una comprensibile fretta, ma rischiano di sentirsi rispondere che anche Di Pietro ha una comprensibile fretta: di concludere altre inchieste, o preparare la requisitoria per questo processo Cusani. «Se non ce lo dicevate voi i giornalisti in questo processo non esistevano», si è sfogato con Spazzali. Come dire: ci mancava anche quest'altra inchiesta... Fosse stato per Di Pietro, avrebbe volentieri evitato l'interrogatorio dei tre giornalisti. Ma è stato il presidente Tarantola a volerli qui, perché c'è Sama da valutare... E con i giornalisti su quella sedia, in quest'aula e la sera in tv, si è chiuso il dibattimento del (tele)-processo Cusani. Tre giornalisti a parlare di soldi che Sama dice d'aver dato, o meglio di aver dato l'incarico di dare, ma non sa se sono arrivati, però pensa che siano arrivati. Accuse sì. Prove no. Giovanni Cerniti «Mi tolgo la toga se minaccia il teste» «Si tolga pure quel che vuole» Foto grande il pm Antonio Di Pietro qui sopra l'avvocato di Sergio Cusani Spazzali

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