LA SOLITUDINE DELL'AMATORE di Anacleto Verrecchia

LA SOLITUDINE DELL'AMATORE LA SOLITUDINE DELL'AMATORE Ovidio sfoga le sue «tristezze» dalla moglie e dai pochi amici rimasti. Gli altri, appena saputa la notizia, si erano subito dileguati: «Come le formiche fuggono i granai vuoti, così gli amici fuggono chi è in disgrazia». Partì con la morte nel cuore: era il mese di dicembre dell'anno 8 d. C. Giunto a Brindisi, s'imbarcò per il suo triste e lontano destino. Ma ben presto la nave fu investita da una violenta mareggiata. Le onde si sollevavano minacciose e il poeta pregava: «Dèi del mare e del cielo, non vogliate sconquassare le membra della nave! Me infelice, che giganteschi marosi si sollevano!... Il flutto soffocherà questo mio respiro». A Tempira, pensò bene di mettere il piede all'asciutto e di proseguire il viaggio per via terra. Per quanto inorridisse al pensiero di lasciare Roma, pure non si aspettava tanta desolazione a Tomi, un'antica colonia greca fondata nel VII secolo a. C. Il clima era orribile e d'inverno non gelava solo il Danubio, ma anche il Mar Nero. Ancora più orribili, però, erano gli abitanti, i quali sembravano usciti dalla tana di un cinghiale. Barba e capelli erano così lunghi e attorcigliati, che non sarebbe riuscito a potarli neppure un giardiniere. Ci si immagini il raffinatissimo sacerdote delle Muse, ma anche raffinatissimo sottaniere, in mezzo a quei selvaggi. Qualunque sia stata la sua colpa di addetto al culto di Venere, egli non meritava certo un castigo così spietato. Ancora oggi i dintorni di Costanza danno un senso di desolazione. A ravvivare la triste pianura non ci sono che gli stormi di corvi e i ricordi della dominazione romana, come le montagnole artificiali su cui veniva acceso il fuoco per segnalare l'avvicinarsi dei barbari. Neppure Tiberio, che con quella moglie che si ritrovava non aveva certo voglia di richiamare a Roma colui che era stato probabilmente considerato il corifeo della dissolutezza, annullò il decreto di Augusto. Così il povero Ovidio morì a Tomi-Costanza, dove gli hanno perdonato tutto e dove sopravvive come una specie di nume tutelare. Egli si augurava che non fosse vera la teoria della metempsicosi, perché gli riusciva insopportabile il pensiero che il suo spirito, dopo la morte, errasse fra le ombre sarmatiche, ma è proprio quello che è avvenuto. Il resto, il lettore lo troverà in questo magnifico volume. Anacleto Verrecchia

Persone citate: Barba

Luoghi citati: Brindisi, Roma, Tempira