Ci scusi Wojtyla sta citando Croce?
Un dubbio dietro la «Grande preghiera» che esalta la potenza storica del papato Un dubbio dietro la «Grande preghiera» che esalta la potenza storica del papato Ci scusi Wojtyla, sta citando Croce? //pontefice sembra ricordare ilfilosofo all'indice a ROMA m EL discorso che si po- ■ trebbe denominare ■ «Delle grandezze criÀ-Ustiane dell'Italia», pronunciato da Giovanni Paolo II durante la «Grande preghiera» dedicata al nostro Paese e celebrata nelle Grotte vaticane, qualche giorno fa, c'è una frase che sembra un'esplosione di retorica e un'esaltazione della potenza storica del papato. Dopo aver magnificato il nascere di una cultura cristiana a Roma su un ceppo di ebraismo e di ellenismo, dopo aver sottolineato lo splendido fiorire di santità medioevale e poi di arte e di letteratura trecentesca e umanistica, Wojtyla ha esclamato: «Sulle rovine della Roma antica cresce una Roma nuova, ormai non più la Roma dei Cesari, ma la Roma dei Papi, nella quale in vari modi si manifesta il genio del cristianesimo. E' questa ormai, con tutto il suo carattere universale, la cultura propria dell'Italia; una cultura di cui vive l'Italia, ma vivono anche, in un certo senso, le nazioni dell'Europa e del mondo». Sarebbe facile individuare in queste espressioni una compiacenza eccessiva per una storia ecclesiastica italiana, con riverberi europei e mondiali, se per una singolare coincidenza non si trovassero gli stessi concetti in Benedetto Croce. Ci sono forse delle sottintese citazioni crociane nel testo del Papa? Parlando della storiografia del Medio Evo, Croce scriveva: «E sorge la storia ecclesiastica, che per l'appunto non è più storia di Atene e di Roma, ma della religione e della Chiesa che la rappresentava, e delle sue lotte e dei suoi trionfi, cioè delle lotte e dei trionfi della verità. Che cosa sono le nostre storie della cultura, della civiltà, del progresso, dell'umanità, della verità, se non la forma consentanea ai nostri tempi della storia ecclesiastica, ossia del trionfo e propagarsi della fede, della lotta contro le potenze delle tenebre, della successiva propagazione che nelle varie epoche si vien facendo del Vangelo, ossia della Buona novella?». Di questi buoni pensieri. Benedetto Croce è pieno, soprat¬ tutto nel suo famoso opuscolo Perché non possiamo non dirci cristiani. «Il cristianesimo è stata la più grande rivoluzione che l'umanità abbia mai compiuta», scrive. E ancora: «Noi nella vita morale e nel pensiero ci sentiamo direttamente figli del cristianesimo». Ma poi, ahimè, spiega: «Il Dio cristiano è ancora il nostro, e le nostre affinate filosofie lo chiamano lo Spirito, che sempre ci supera e sempre è noi stessi». Così, questa «Storia ecclesiastica» che suscita all'inizio tanto entusiasmo, sfocia alla fine nella concezione crociana rigidamente storicistica e immanentistica. Addio, allora, convergenze tra Papa Wojtyla e Benedetto Croce. «Mai fidarsi delle parole!»: non è un pensiero filosofico, ma popolare. I predecessori di Giovanni Paolo II lo avevano capito. E' per questo che, nel 1934, il Sant'Offizio si era premurato di mettere all'Indice l'Opera omnia del nostro filosofo napoletano. Domenico Del Rio Da sinistra Giovanni Paolo II e il filosofo napoletano Benedetto Croce
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