Il Salvador scopre le urne di Mimmo Candito

Dieci anni di stragi e ora destra ed ex guerriglieri si scontrano in un duello senza armi Dieci anni di stragi e ora destra ed ex guerriglieri si scontrano in un duello senza armi Il Salvador scopre le urne Prime politiche dopo la guerra civile LA FINE DEL LUNGO TERRORE FSAN SALVADOR INITA la guerra civile, tornati a casa i guerriglieri, sepolti i 75 mila morti senza colpa, oggi il Salvador sceglie il nuovo presidente, l'assemblea nazionale, i consigli comunali. L'ultima volta che si votò, quattro anni fa, era anche quella una domenica di fine inverno. La chiesetta dove avevano sparato all'arcivescovo Romero mostrava il portoncino chiuso, ingrigito da una polvere spessa; ma qualcuno, quel mattino, era andato a posarvi un piccolo mazzo di fiori gialli, un mazzo semplice, senza nastri colorati né plastica luccicosa, e per tutto il giorno i fiori gialli sfidarono i militari e le squadre di D'Aubisson. Oggi gli squadroni della morte debbono muoversi con cautela (anche se negli ultimi sei mesi hanno fatto fuori 45 uomini della Sinistra), e perfino i militari stanno più attenti a non farsi trovare con le mani insanguinate; ma quattro anni fa, in quel Salvador spaccato da una guerra che si combatteva da dieci anni, ogni giorno il mattino trovava lungo la strada cumuli di morti ammazzati, torture, violenze senza condanna. Avevano ammazzato anche Oscar Romcro, il vescovo che non accettava di schierarsi lungo la linea della «guerra al comunismo». Ogni domenica, cone le sue omelie, in una vecchia cattedrale strapiena di facce di indios e di bimbi che correvano lungo le navate, monsignor Romero denunciava a voce alta le responsabilità dei potenti e le colpe dei torturatori. Per dieci anni il Salvador è stato una frontiera del mondo. Da una parte e dall'altra della sua semplice storia si scontravano gli interessi dei Grandi: gli Usa, preoccupati dai successi di una guerriglia popolare (l'Fmln, il Fronte Farabundo Marti di Liberazione Nazionale) che rischiava di allargare verso l'intero Centro America l'onda lunga della rivoluzione sandinista; e l'Urss di Breznev, compiaciuta di poter manovrare da lontano strumenti di lotta internazionalista per disturbare fin «nel cortile di casa» le egemonie regionali di Washington. Un giorno che andammo a incontrare il presidente Duarte nel suo palazzo, c'era, esposta con orgogliosa consapevolezza, una foto con dedica del suo collega Carter; l'am- basciata americana, a San Salvador, contava assai più del governo nazionale; né c'era poi tanto pudore in giro. I giochi si facevano alla luce del sole, e Fidel Castro a quel tempo sembrava un gigante che stava per buttar giù le vecchie colonne montate da Monroe. Naturalmente la guerriglia in Salvador non era un'invenzione strumentale del compagno Breznev. I forti squilibri di una so¬ cietà governata dalla ricca casta dei cafetaleros avevano creato tensioni drammatiche, che i primi focosi guerriglieri puntavano a pilotare verso una soluzione rivoluzionaria; la vittoria popolare di Managua contro la dittatura dei somozisti era parsa una forma di contagio inattaccabile, e i tentativi di mettere in campo un progetto riformista per bloccare l'espansione dell'Fmln si erano scontrati con il rifiuto netto dei vecchi proprietari a ogni ipotesi di riforma agraria. Reagan fece del Salvador l'ultima linea di resistenza, e il suo piano di aiuti allo sviluppo si trasformò in una vera e propria operazione di contenimento militare. Il piccolo Paese fu invaso dai «consiglieri militari» di Washington, e un paio di miliardi di dollari spesi in blindati ed elicotteri antiguerriglia fecero del misero esercito salvadoregno una macchina militare orgogliosa, garante soprattutto di ogni potere politico. Quel mattino delle elezioni, quattro anni fa, l'alba la svegliò un attacco della guerriglia, che venne a combattere l'esercito fin dentro le strade della capitale, San Salvador. Fu un'intera giornata di guerra, con l'Fmln che voleva dimostrare sul campo come il controllo del territorio fosse nelle sue mani. Ma la guerriglia quel giorno non riuscì nel suo intento: rese solo evidente che la strategia del «conflitto di bassa intensità» studiato dagli analisti del Pentagono era, in realtà, vincente: almeno, nel senso che bloccava l'espansione militare dell'Fmln e, alla lunga, ne distruggeva le capacità di infiltrazione sociale. Dietro l'esercito si muoveva allora l'Arena (Alleanza Repubblicana Nazionale), che era il partito della destra, dove si mescolavano senza vergogna i fascisti e l'oligarchia del caffè, il magg. D'Aubisson che aveva fatto ammazzare Romero e l'imprenditore Alfredo Cristiani che quel giorno di quattro anni fa venne scelto come presidente. A quel tempo, quando si andava a intervistare qualcuno nella sede dell'Arena, all'ingresso si trovava un grande cesto di vimini, dove tutti i visitatori dovevano depositare le armi che portavano addosso; quel cesto, non l'abbiamo visto mai vuoto. Oggi, talvolta lo è. A succedere a Cristiani, che rappresentava comunque la faccia meno fascista dell'Arena e che era riuscito a concludere una pace con la guerriglia nel '92, oggi si candida l'ex sindaco di San Salvador, Armando Calderón Sol, che fu l'uomo di fiducia di D'Aubisson; negli spot televisivi Calderón Sol si mostra contornato di bimbi e promette pace e progresso, ma poi nei comizi si lascia prendere la mano e canta a voce spiegata il vecchio motto: «Faremo del Salvador la tomba di tutti i comunisti». Nell'indecisione generale (il sessanta per cento ancora non ha scelto chi votare), la sua foga oratoria, e soprattutto la convinzione che lui comunque possa assicura¬ re la continuità degli aiuti americani, gli danno una lieve maggioranza. Lo contrasta Ruben Zamora, che guida una coalizione progressista: i socialdemocratici di Cd (Convergenza Democratica) e gli ex guerriglieri dell'Fmln. Anche se in giro fanno vedere una sua fotografia con Castro, Zamora in realtà è un intellettuale mite e severo, che ha passato in esilio gran parte del tempo della guerra civile; lui crede ancora possibile un progetto riformista e invita a guardare con molta attenzione a quanto è appena accaduto poco più a Nord, nelle terre messicane delle Chiapas. Il continente si mostra di nuovo in ebollizione, però anche la storia dell'America Latina insegna che quando i guerriglieri passano al giudizio delle urne, la loro riconversione non paga il sacrificio delle antiche utopie: dal Nicaragua all'Uruguay, dal Venezuela alla Colombia, mai il voto ha voluto riconoscere la qualità di un progetto rivoluzionario. Zamora può allora sperare, al massimo, di costringere Calderón Sol al ballottaggio. E in questo caso diventerebbe essenziale il ruolo di una democrazia cristiana spaccata e minoritaria. Sembra quasi una storia italiana, venuta dal lungo tempo della guerra fredda e ora incerta perfino sugli attori che pretendono di rappresentare il tempo nuovo. Mimmo Candito Un uomo di D Aubisson per i conservatori Zamora per la sinistra Guerriglieri nel Salvador degli Anni 80. Sopra, Ruben Zamora