A cinquant'anni dallo sbarco in Normandia. Un reduce americano ricorda: la paura, l'eccitazione, la voglia di farla finita di Vittorio Zucconi

A cinquant'anni dallo sbarco in Normandia. Un reduce americano ricorda: la paura, l'eccitazione, la voglia di farla finita A cinquant'anni dallo sbarco in Normandia. Un reduce americano ricorda: la paura, l'eccitazione, la voglia di farla finita Le magnolie sembrano un po' abbacchiate, ma le azalee e i rododendri hanno resistito benissimo al gelo dell'inverno scorso e nel giardino del colonnello la primavera dei fiori e dei ricordi sta per scoppiare. «Ne ho viste tante, sa, di guerre in 35 anni di servizio, e ho visto tanta gente morire in Germania, in Corea, in Vietnam, ma il ricordo di quel 6 giugno '44 non mi abbandona mai. Adesso poi, con tutte le celebrazioni e le ricostruzioni del D • Day, quel giorno di 50 anni or sono tornerà a essere come ieri», dice mentre tasta fra le dita il bocciolo di un rododendro appena liberato dal ghiaccio. Sulla strada, una vecchia station wagon ingombra di marmocchi biondi in divisa da baseball passa in un fischio di cinghie di trasmissione e di valvole sballate. «La notte sento ancora il sibilo dei proiettili tedeschi da 88 che ci volavano sopra e il tonfo nella sabbia quando non esplodevano», dice il colonnello e scuote la testa, forse per liberarsi dai fischi. «Venga, venga in casa che prendiamo un caffè e parliamo di Omaha Beach». Omaha Beach, «Bloody Beach» come l'avevano ribattezzata i soldati, la spiaggia del sangue. Quattro chilometri di sabbia e di scogli sulla costa di Normandia fra Pointe du Hoo e St. Honorine, dove 50 anni fa, alle 6,30 del mattino del 6 giugno 1944, il mio colonnello delle azalee, Alvin Ungerleider, e altri 40 mila soldati americani come lui sbarcarono nei denti del Vallo Atlantico nazista per liberare definitivamente l'Europa da Hitler. «E per restare vivi, se possibile» sorride il colonnello. «I generali combattono per vincere. I soldati combattono per tornare a casa vivi». E per curare le azalee, 50 anni dopo. La mattina del D-Day, del giorno dello sbarco in Normandia, come era stato definito nel codice del comandante supremo Dwight Eisenhower, non c'erano fiori, azalee, bambini in divisa da baseball sulle coste normanne dove 200 mila uomini armati fra americani, inglesi, canadesi, 4136 navi da guerra, 11 mila aerei fra bombardieri, alianti e caccia, lanciarono la più grande operazione anfibia della storia. Quelle 13 ore che cambiarono il mondo - fra le 6 del mattino, quando i primi fanti caddero sulla battigia delle 5 spiagge dell'attacco, e le 7 di sera, quando le avanguardie superarono il balcone fortificato del Vallo Atlantico - sono state raccontate infinite volte, e stanno per essere fasciate nel sudario delle celebrazioni che il 6 giugno torneranno a invadere la Normandia, ma questa volta con politici, giornalisti, polemiche e retorica ufficiale. Per questo, quasi per esorcizzare il fastidio delle prossime trombonate politiche, sono venuto qui, nel giardino dei ricordi e dei rododendri alla periferia di Washington, con il Colonnello Ungerleider, uno dei sopravvissuti di quell'assalto. Che cosa furono per lui, per quelle formichine color kaki che vediamo correre e cadere nella battigia nelle pellicole sgranate di guerra, quell'ora, quel giorno? «Erano odore di vomito, il vomito che noi soldati squassati dal mare grosso e dall'ansia rigettavamo negli elmetti. Era paura, eccitazione, anche voglia di farla finita, di rimettere i piedi sulla terra ferma e di sfondare il valletedesco. Tra i soldati c'è un modo di dire: la via più corta per tornare a «Alle 4 del mattino credetti di sognare: mai visto tante navi coprire il mare, tanti aerei in cielo.1 Noi poveri fanti ci abbracciammo: capimmo allora che avremmo vinto» WASHINGTON DAL NOSTRO INVIATO Sopra e a sinistra, arrivano le truppe alleate. Sotto, la cartina dello sbarco in Normandia. Più in basso, il generale Bradley «Vidi250 marines uccisi in 400 metri di spiaggia» morti o feriti. Noi, che saremmo stati sì e no 50 metri più in là, avevamo forse uno, due uomini ogni dieci colpiti. Perché, non lo so. Il mio tenente morì accanto a me, le nostre spalle si toccavano e io sono qui a prendere le pillole per il cuore, 50 anni dopo». A mezzogiorno, H +6 ore, la Prima, la Seconda e la Ventinovesima divisione americane erano ancora bloccate nella sabbia appiccicosa ormai di sangue e escrementi di «Bloody Beach», Omaha. Lontano, Eisenhower, Omar Bradley, i generali cominciavano a contemplare l'ipotesi di un ritiro e di un reimbarco. I rinforzi galleggiavano a un chilometro, a 500 metri dalla riva ma non potevano scaricare per non intasare una spiaggia che era già un carnaio, un «tiro al piccione» dice il colonnello. L'aviazione era scomparsa. «Li vedevamo passare via veloci verso l'interno e alzavamo i pugni verso di loro, maledetti flyboys, ragazzi volanti... Fu allora che vedemmo le unità della Marina più piccole, i caccia, le corvette, le fregate, zigzagare fra le chiatte da sbarco, avvicinarsi alla spiaggia fino a rischiare di incagliarsi e sparare coi loro pezzi più piccoli e più precisi sui bunker e sulle posizioni tedesche. Dio benedica la Marina». Fu nel primo pomeriggio che la resistenza dei tedeschi cominciò a attenuarsi. «La mia compagnia riuscì a salire sulle dune e a aggirare i bunkeT che per tutta la mattina avevano tenuto. Dal mare cominciavano a arrivare mezzi corazzati dopo il disastro iniziale. I primi erano affondati come ferri da stiro. Dei primi 45 tank sbarcati, ne arrivarono sulla riva 5, gli altri sul fondo del mare con gli equipaggi. Accanto a me, il mio sergente piangeva di rabbia. Che hai, gli chiesi? Mi disse che arrampicandosi dietro di me sulle dune aveva contato 250 corpi di soldati americani immobili, probabilmente morti, in 400 metri di spiaggia. Fu allora che da un bunker nascosto fre le canne vidi uscire i primi soldati tedeschi in carne e ossa, un sottufficiale e 5 serventi del pezzo. I loro occhi erano spaventosi, vuoti, senza espressione, come di chi non ne può più. Sentii partire un colpo, poi un altro, mi buttai a terra, ma non sparavano su di noi. Erano i miei soldati che sparavano sui prigionieri, accecati dalla rabbia, per vendicarsi dei camerati morti. Ancora un caffè?». Sospira: «Fu difficile convincere gli uomini a non sparare sui prigionieri...». Alle 7 di sera, ora H +13 ore, la prima linea di difesa tedesca era sfondata. Alle spalle delle truppe d'assalto, sulla spiaggia, la spaventosa macchina logistica americana, quella che negli Usa era arrivata a produrre in quei mesi un aereo da guerra ogni 3 minuti e mezzo, cominciava a rovesciare i suoi rifornimenti e rinforzi irresistibili. «Ci fermammo a mangiare il primo rancio della giornata, un pacchetto di razioni K, scatole e stecche di cioccolato. La mia conteneva, mi ricordo, chili, ragù di carne e fagioli dolci alla texana, freddo, una porcheria». Ricordati le pastiglie per il colesterolo, interviene Ruth, sì tesoro. E si ricorda chi fu il primo tedesco che uccise? «Benissimo. Fu il 7 giugno. Stavamo pattugliando una piccola macchia di alberi. Vidi un tedesco, ancora con l'elmetto in testa e il fucile in mano coperto di sangue, appoggiato a un tronco. Mi avvicinai per vedere se aveva ancora la sua pistole Luger nella fondina, per portargliela via, sa, la Luger era il souvenir di guerra più ricercato da noi. Quando arrivai a pochi passi da lui, ebbi l'impressione che sbattesse le palpebre. Gli misi la carabina in mezzo agli occhi e tirai il grilletto. La sua testa esplose come un'anguria. Se fosse stato vivo, avrebbe fatto lo stesso a me». Esco a prendere il concime per le azalee. Okay Ruth, sta' attenta al traffico che è l'ora di punta. Vittorio Zucconi

Persone citate: Alvin Ungerleider, Dwight Eisenhower, Eisenhower, Hitler, Omar Bradley, Ungerleider

Luoghi citati: Corea, Europa, Germania, Normandia, Usa, Vietnam, Washington