PROCESSO ALL'AMORE

PROCE SSO ALL'AMORE PROCE SSO ALL'AMORE Passione e colpa negli «Stadi sul cammino della vita» Un Kierkegaard inedito, ultimo lavoro di Ludovica Koch TU ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi finem dididerint... Sono le prime parole che mi vennero alla mente quando mi giunse, dono postumo, il volume di Soren Kierkegaard curato da Ludovica Koch, Stadi sul cammino della vita (traduzione di A. M. Segala e A. G. Calabrese). Me ne aveva annunciato la prossima uscita per telefono, pochi giorni prima della improvvisa malattia che la condusse a rapida morte. Nella mia quadratura subalpina avevo espresso meraviglia, allora, per il fatto che avesse abbordato un argomento tanto eccentrico come l'opera dello scrittore danese; ma leggendo, ora, la finissima ed elegante introduzione, e riflettendo su tutto il lavoro dell'amica scomparsa, mi sono resa conto che nulla era eccentrico alla sua genialità. Così Ludovica ha spaziato dall'anglosassone del Beowulf, di cui diede splendida traduzione (Einaudi 1987), all'antico nordico della Poesia Scaldica (Einaudi 1984), al Divano di Goethe (Rizzoli 1991), al latino medievale di Saxo Grammaticus di cui organizzò e curò la traduzione (Einaudi 1933), impagabile dono per ogni appassionato del Medioevo, di cui rivela, come dice nell'introduzione, una capacità poetica e drammatica di rara intensità. A questi e ad altri lavori disparati Ludovica era mossa da interesse autentico, più che curiosità, un'esigenza vitale di conoscere e sperimentare territori diversi, spesso inesplorati, ansia forse di appagare una morte, che dovette esalare dal ritrovamento del manoscritto in fondo a uno stagno, ripescato per caso: «Capisco che era un sospiro dell'abisso, un sospiro de profundis». Il diario racconta giorno per giorno, ma un anno dopo lo svolgersi dei fatti, l'innamoramento di un giovane per una fanciulla, la richiesta di matrimonio, il fidanzamento e poi la distruzione di amore e fidanzamento ad opera dell'innamorato, il quale tuttavia resta innamorato fino alla fine. Ma per un perverso gioco masochistico innesca un processo di introspezione che lo porta a dubitare di tutto, dell'amore, della capacità di rendere felice l'amata, della possibilità in generale che l'amore renda felice qualcuno, e riesce a tormentare sé e la donna che ama fino alla distruzione di entrambi. Tutto questo senza mai dire nulla direttamente - non per niente è Frater Taciturnus - ma usando gli sguardi, gli atteggiamenti, assenze e ritardi, o subdoli messaggi per interposta persona. Kierkegaard non poteva descrivere meglio l'involuta pulsione di sofferenza di un'anima tentata dal sublime nel sentimento d'amore, nella fede religiosa, e condannata a un perpetuo dubbio di colpevolezza. La sua stessa anima? Forse sì. Quella stessa anima che si esprime in termini diversi nei suoi scritti più propriamente filosofici e teologici.