Nolde il fioraio dei colori

a Lugano straordinaria rassegna del pittore espressionista tedesco a Lugano straordinaria rassegna del pittore espressionista tedesco Nolde, il fioraio dei colori Ogni suo quadro èuri germoglio della natura BLUGANO EATA battuta arbasiniana, quella d'un tempo, d'andarsene a Chiasso a cercare un Ipo' di libri, insieme al To- blerone. Che avvilimento, invece, oggi (vergogna, assessori italiani!) doversi puntualmente trascinare qualche metro dalla frontiera per trovarsi di fronte ad una mostra degna di tale nome. Come questa, importante, curata dal meritorio Rudy Chiappini (dopo Varlin, Bacon, Vedova) alla Villa Malpensata di Lugano (sino al 5 giugno, nutrito catalogo Electa). Anche perché ti rendi conto che il cosi famoso, nevralgico Emil Nolde, in fondo è molto meno conosciuto e visto di altri suoi compagni di strada espressionisti. Ed è giusto anche scavalcando la cronologia - incominciare da quel suo impietoso Autoritratto 1917 (dunque ha intorno ai 50 anni), che funge da schiaffo d'accoglienza. Perché quegl'inospitali occhi nordici di ghiaccio, bergmaniani, quel cappellaccio riottoso da contadino che non vuol lasciare le sue radici, quegli abissi tempestosi di gorghi di materia, che lo avvolgono in uno dei suoi irrinunciabili sfondi (che sfondi non sono, perché sono rumorosi turbinii di scatenamento emotivo, instabili ed irrequiete temperie che bruciano come febbre) ebbene tutto quel roteare di matericità in sussulto subito ci invischia dentro il vero fuoco della sua modernità: che è il dramma «oggettivato» del colore. Colore che precede e disfa la forma. Anche se qui il profilo è nettissimo, quasi boxato: ma c'è come un ritegno, un filtro che ci sottrae la confidenza dell'artista tedesco, abituato alle raggelate atmosfere delle sue terre affacciate sulla Danimarca. Lo dice lui stesso, magnifico interprete letterario di sé: «Mi parve che dovessi ritrarmi come per documentare me stesso e dipinsi così una volta l'uomo come uomo, un'altra come artista». Una frattura (thomasmanniana, tra l'altro, tra uomo della strada ed artista) - sana, contadina, ancestrale schizofrenia - ch'egli persegui(te)rà nel tentativo di conciliazione, dentro la perenne battaglia cromatica dei suoi quadri. Nolde non è un artista come Rembrandt, come Van Gogh, che ami autoritrarsi, per provare la propria vista interiore sul sé: non è ossessionato dal problema dell'io. Appunto, vuole «documentare»: «Con un sospiro, come dopo aver assolto un dovere, mi rimisi a dipingere quadri di figura. L'autoritratto non è mai stato fonte di gioia per me». Soprattutto egli vuole auscultare la natura: è come travolto dalla forza primordiale della creatività istintiva, brada, del reale. «Il pensiero di tutto ciò che è primigenio continuava a incatenare la mia mente». «Cugino del profondo» lo salutava Klee, stordito dalla «terrigna» forza della sua «anima ancestrale». Qualcosa che lo aiuta a scavalcare la sensiblerie retinica degli impressionisti, a superare d'un balzo l'educata pastosità funerea dei vari Lenbach, Feuerbach, da cui sembra provenire, dei Von Stùck (presso cui pure studia). Rimarrà sempre un «contadino»: da bambino, lavoratore nei campi, dipingeva «naturalmente» spremendo succhi di sambuco o di zucca. Diventa intagliato¬ re, scolpisce un mobile per il poeta Storm, rimane in fondo uno scultore della materia pittorica (a prescindere poi dalle sue splendide xilografie). «Riprodurre in maniera fedele ed esatta la natura non fa un'opera d'arte. Trasmutare i valori naturali aggiungendovi qualcosa della propria spiritualità interiore». Pasolini avrebbe detto «transumanare». Ma è inconciliabile perfino con i suoi colleghi espressionisti, con cui pure avrà degli scambi (rimarrà un anno legato alla Brùcke). Non è l'io che deforma la natura, è la natura stessa che ti investe, che ti invischia, che ti violenta. Nolde si fa medium dei bisbigli segreti che riempiono il mondo, spesso le sue tele sono abitate dal ricordo infantile delle saghe nordiche, troll e folletti, che alleggeriscono i suoi paesaggi insonni (e «voci» chiama - volentieri - i suoi colori). Si lascia attraversare, macchiare dalla «pittura» della natura: è un vero rovesciamento epocale. Guardiamo il giovanile Pomeriggio estivo, sorta di fauvismo avant-lettre, strindberghiano paesaggio ravvivato pure dal sole. Nolde ha già conosciuto («con entusiasmo ed amore») Gauguin e Van Gogh. C'è lo stesso incendio di colori. Ma il suo tachisme è di natura diversa: non c'è la tensione centripeta, soffocante, paranoica dei tocchi concentrici di Van Gogh, ammalati dell'io. C'è semmai un'euforia sinistra del colore che esplode, un vento intemo ed entusiasta, dionisiaco, che porta via anche la sua stessa pittura, che la travolge. E' come un Millet improvvisamente caricato a fuoco d'artificio, e sta scoppiando, ogni volta, d'innanzi a noi. «Uragani di colore» li chiamava il suo amico Schmidt-Rottluff: e non si arrestano mai. C'è una frase rivelatrice, nella sua autobiografia: «Nell'angolo, il mazzo di fiori ancora oggi continua a fiorire nel quadro». I colori lo scuotono e gli vengono incontro, lui li riceve sacralmente sulla tela, non vuole nemmeno che «0 pensiero disturbi» quello che l'istintività ha dettato, quell'odiosa «ragione, che vuole sempre essere più brava dell'artista». L'artista stesso deve ammettere che «stenta ad afferrare quel processo». E' una sorta di automatismo del profondo: «allora discesi ancora una volta nella profondità mistica dell'essere umano e divino insieme». Ma con ben poco di analogo a quello che predicherà la poetica surrealista. Certo, Nolde è anche un visionario, ma lui sogna «nella» pittura, «dentro» i colori, e non «con» i colori, come sarà per i nipotini di Breton. «Volevo sempre che nell'atto del dipingere i colori si manifestassero attraverso di me, così come si costruiscono i minerali, come crescono i muschi e le alghe, così come sotto il sole sbocciano i fiori». A lui non interessano i fiori, lo si vede anche nei bellissimi ritratti sfatti di papaveri spampanati, come carnagioni chiazzate di rosso: sta a cuore il mistero lievitante del fiorire, del germinare. Lascia persino che sia la natura a lavorare le sue opere, «amavo questa sorta di collaborazione»: dipinge all'aperto, la neve scendendo disfa i contorni delle forme, «definisce» paradossalmente, i suoi quadri. Per questo sono così illuminati i suoi acquerelli, che li si preferisca o meno agli olii: perché si capisce che per lui originariamente preesiste la macchia, la chiazza, segnata anche dal diffondersi dell'umidità sull'assorbente carta giapponese, poi, semmai, il disegno rettificherà i contorni, ritoccherà le sagome, in una sorta di ubriacatura dell'immagine. «Voglio assolutamente che la mia opera germogli dalia materia». Tutto è animato in lui, anche le maschere vive, ghignanti, che lo avvicinano ad Ensor, di cui era amico, oppure quegl'ectoplasmi itterici dei cabaret notturni di Berlino alla Cari Einstein («pallidi come il borotalco e puzzolenti come cadaveri, impotenti leoni d'asfalto») che come un topo di campagna va a scoprire nella città-Babilonia: «Luccichio delle superfici» che dipinge tra il fumo del vizio, come se un Alban Berg dovesse trascrivere un Toulouse-Lautrec, od un valzerino di Ambroise Thomas. Ma anche quando dipinge i «mercatucoli» del suo paese non li fa mai mettere in posa, si sente «uno di loro», sta in mezzo, scomodo, con la sua pittura, come un conversatore improvvisato, che prende il posto che trova. Sta addosso alle persone, strette in innaturali abbracci corporei, figure che non riescono a restare letteralmente nella propria pelle: non si tratta di caricature, ma di marcature, di sottolineature di complicità. Quasi dei familiari nomignoli, ottenuti col colore. Sì, non si può che ripetere all'infinito questa parola, «colore»; perché sarebbe ingiusto ricorrere a sinonimi più gentili, ipocrici come cromie, tinte, pittura. Quel colore che i nazisti gli negano, in qualità di artista degenerato, e lui continuerà a moltiplicare gli inodori, clandestini «quadri non dipinti». Il colore sovrano di un capolavoro, almeno: quello del mare di collezione Ammanii, tempesta ibseniana dove gli elementi si scatenano, il cielo si fa di fango, euforiche ditate di buio e di luce, sifilitico blu di metilene oceanico: e non c'è spazio nemmeno per il terrore d'una scialuppa. Il colore, diventato padrone assoluto del mondo. Marco Vallerà Fin da bambino dipingeva spremendo succhi di sambuco e zucca: la macchia veniva prima del disegno, l'opera doveva sbocciare come un papavero al sole

Luoghi citati: Berlino, Danimarca, Lugano