La rivoluzione Jean Clair
La rivoluzione Jean Clair La rivoluzione Jean Clair Arriva il direttore dal Museo Picasso di Parigi e cambia di segno la «poetica» delle mostre s CENA autentica, non allegorica, l'altra sera a Roma, in via Giulia. Come un cospiratore da melodramma, da quadro di Hayez o da Lucrezia Borgia di Donizctti, Achille Bonito Oliva rientra in casa, il volto scuro, corrusco. Forse i giochi sono già fatti, forse si coaguleranno nella notte. La Biennale è perduta. Per sempre. Con il pesante, teatrale portone della sua magione - davvero e non solo simbolicamente - si chiude un'epoca, che non tornerà. Per fortuna. Non è nobile infierire sugli sconfitti, ma (quando persino i suoi maramaldeschi ed ingrati artisti un tempo suoi complici, si sono rivoltati con una condividibile lettera contro la paccottiglia dell'ultima edizione) come non liberare un ampio respiro di esultanza? Esiste ancora qualche grumo di saggezza, se per esempio i meritevoli, come Messinis, sono stati premiati. Ed inoltre il nome di Jean Clair sembra ora funzionare a meraviglia. Quasi simmetrico, speculare, alla poetica del suo predecessore. E' come se al posto di un ministro della cultura d'assalto subentrasse un raffinato intenditore d'arte. Come se un collezionista, improvvisamente rinsavito, decidesse di gettar via un ingombrante igloo di Mario Merz, per rimanersene beato col suo microscopico, ma pregevole Licini. E stiamo dicendo Li nini, che ci sta benissimo: non pretendiamo Dùrer o, all'opposto, Annigoni. Perché Jean Clair, anche se è uomo di ragionevolezza e se così vogliamo dire di illuminato conservatorismo, è tutt'altro che un reazionario. Non foss'altro che dirige, e benissimo, il Museo Picasso di Parigi, che è una sorta di tempio sacro dell'avanguardia. E che sa amare Fautrier come Soutine, De Chirico come De Staél, Attanasio Soldati come Vallorz. Non lo si faccia passare dunque tout court per un paladino dell'arte figurativa, e basta: anche se è vero che in anni difficili, ha difeso soprattutto Giacometti e Bacon, Musil e Lopes Garcia, Lucien Freud e Balthus. Evviva, vedremo dunque tornare alla Biennale la pittura-pittura, ma non soltanto questo. Finalmente potremo visitare qualcosa di degno, almeno, di una qualsiasi sede espositiva straniera, e non una fiera campionaria, gaglioffa e provinciale, che pur si pretende cosmicomultimediale. Si ricomincerà a parlare di valore, pure senza accarezzare le stanche guance dell'estetica crociana: e ci saranno, infine, delle «opere» e non delle risibili merci di scambio per giustificare la logorrea di anfananti criticumi decotti. Abbiamo a disposizione uno storicocritico militante, fazioso, vivaddio, ma capace anche di valutare le qualità dell'arte, di distinguere un Sironi da un Oppi, e magari da un Guerrino (qualità che forse non tutti i pontefici delle Biennali sembrano possedere). Né ci saranno più soltanto rancide trovatine pubblicitarie o lanci stantii di slogan transoceanici, fumi linguistici capaci eli puntellare pre-categorie di comodo, dove stipare i buoi vaganti del sub-minimalismo moribondo. Clair è organizzatore sagace ed originale, coraggioso nelle scelte: spesso è stato un profeta che ha saputo anticipare le mode, per esempio con un intempestivo elogio del pastello. Qualche anno fa con la retrospettiva parigina Les Realismes (in copertina un ritratto di Sironi, considerato allora ancora un artista compromesso col regime) ha dimostrato che esistevano pure degnissimi rivali dei santoni delle avanguardie, i cosiddetti «intossicati dalla trementina», demonizzati da Duchamp. Recentemente al Grand Palais ha concertato un gigantesco viaggio sui rapporti tra scienza ed arte, corporeità e idea del bello. Così pregevoli sono state, al Palais Sale, le sue mostre picassiane, sulla Crocefissione (da Grunewald a Sutherland), sui rapporti col poeta Cesar o col musicista De Falla e Diaghilev. Ma non sono certo le «mode» ad appassionarlo: nel suo libro più rappresentativo (si è occupato anche della bellezza medusea), Crìtica della modernità, recentemente ristampato da Allemandi, ha proprio combattuto questo falso feticcio della presunta modernità a tutti i costi, ridicola eredità del progressismo positivista. E se il suo predecessore, orecchiando Rimbaud, pareva predicare (o razzolare) «bisogna assolutamenta essere à la page, epatando non si sa più chi, Clair potrebbe contrapporre il motto che Egon Schiele appose, mentre era in prigione, accusato di immoralità, in un angolo di disegno: «L'arte non può essere moderna. L'arte ritorna eternamente all'origine». Splendido moto-premessa per chi dovrà occuparsi della Biennale del Centenario. Marco Vallora Achille Bonito Oliva. Quest'anno cambio della guardia nella direzione della sezione
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