Quanto ci manca Brera di Gianni Brera

Quanto ci manca Brera Quanto ci manca Brera T * ITALIA è il Paese M A che amo» (Silvio Berlusconi, 26 gennaio). «Mi vergogno di questo Paese» (S. Berlusconi, 10 marzo). Quanto ci mancano in queste domeniche le cronache di Gianni Brera. Gionabrerafucarlo, protoleghista e primo apologeta di Berlusconi che già dieci anni fa adombrava la santa alleanza Carroccio & Biscione. Il Brera delle teorie etnico-razziali, stilisticamente tanto più godibili rispetto al tardo Miglio, e al contempo cortigiano geniale del Berlusca: «Il duca di Milano, unico lombardo di cui possiamo vantarci». Il tutto da salariato di Scalfari, che non è poco. Si noti per inciso la shakespeariana prospera eleganza di quel «duca di Milano» e la si confronti con il provinciale «Cavaliere» in voga, ispirato al massimo a Tino Scotti. Chissà quali altri nomignoli avrebbe coniato Brera per i primattori della Seconda Repubblica. «Rombo di tuono» Bossi, al posto del bolso Senatur brevettato da Vittorio Feltri (un «roccioso bergheimer»). I partisti, con Segni e Rivera, non l'avrebbero scampata: «abatini». Né Occhetto, «fumo di Londra», «abatino rosso (massi) circondato da onesti cursori di mesta broccaggine». L'incipit fisso delle telecronache elettorali sarebbe stato all'incirca: «Il match della settimana è Berlusconi-Occhetto (25 per cento più 21), valido per lo scudetto, quindi la classica Martinazzoli-Fini (16 più 10), e a seguire Bossi-Bertinotti (9 più 5) e Pannella-Del Turco, che giocano per la salvezza». Ma dove l'assenza del grande Brera si fa davvero sentire è nell'impossibilità di reperire qualcuno in grado di spiegarci l'ultimo stadio della politica, questo strano percorso per cui eravamo partiti un mese fa con la discussione sui massimi sistemi fiscali e siamo approdati a pochi giorni dal voto al biscardiano processo sull'affare Lentini e i miliardi in «nero» sborsati dal Milan. Che cosa è successo? Brera spiegherebbe probabilmente che il «nero», qui nella repubblica sfondata dal pallone, circola dai tempi di Bacigalupo. Com'è noto ai più. Eppure funziona sempre, davanti al telegiornale, l'effetto Biancaneve: nooo, possibile? Sono anni improntati allo stupore. Andreotti amico di mafiosi? Non mi dire. Craxi, i socialisti, chi l'avrebbe immaginato che rubavano. Ora arriva anche questa doppia mazzata sul calcio, l'affare Lentini e la storia dello scudetto perso dal Napoli di Maradona per compiacere la camorra. Ma come, il calcio, un ambiente tanto perbene, infangato da poche decine di presidenti finiti in galera ma in compenso prediletto dal Gotha del mondo politico-finanziario, dal comandante Lauro fino a Borsano e Ciarrapico. Quale disincanto. Ricordo lo sgomento del giornalista francese letteralmente preso per la collottola ed espulso da una conferenza stampa del Napoli calcio dopo aver osato domandare ai dirigenti se avessero per caso notato la presenza di noti camorristi intorno alla squadra. E Ferlaino e Maradona, per una volta all'unisono: «Se ne vada, mascalzone, si vergogni!». (Vergognarsi, nonostante le apparenze, è verbo ben poco riflessivo). Perché la reazione è sempre quella, offesa e rubizza, querula e querelante, di chi minaccia esposti alle autorità e appelli al Capo dello Stato, al Csm, al Parlamento se non è sciolto, al governo quando c'è e come ultima spiaggia al popolo, agitando l'enorme tricolore che da oltre un secolo ormai funge da foglia di fico delle magagne nazionali. E che infatti tutti si son messi a sventolare, dopo Tangentopoli, dalle curve della Seconda Repubblica. Curzio Maltese

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