Distruttori di città

Distruttori La nuova guerra serba costruisce muri e ghetti: e per farlo rade a terra i centri urbani nati con la borghesia Distruttori di N citta D PARIGI URANO ormai da molto tempo gli assedi di Maglaj, Bihac, Srebrenica, Tuzla, città che le milizie serbe hanno voluto non solo prendere ma estirpare. Dura anche l'assedio di Sarajevo, nonostante gli incompiuti ultimatum occidentali: dalle colline si spara di meno ma la capitale è ancora sfigurata da vari muri: uno esterno che tuttora l'accerchia, uno interno che la divide in due, separando i quartieri serbi da quelli bosniaco-musulmani. Le due metà di Sarajevo sono presidiate dalle rispettive potenze tutelari, che portano lo stesso casco blu ma hanno interessi diversi. Di fatto i soldati russi dell'Orni custodiscono il loro nuovo protettorato serbo, installandosi per la prima volta in una regione da cui per quasi mezzo secolo erano stati estromessi. E' grazie al loro arrivo che la vecchia linea del fronte, dentro Sarajevo, rischia di rasformarsi in frontiera nazionale. Gli europei hanno già visto città così sfigurate: Sarajevo può divenire la nuova Berlino d'Europa. Presto potrebbe risorgere, qui, il muro che si credeva caduto: muro delle nostre vergogne. Più che sfigurata Sarajevo è stata corretta, rieducata. Tutte le città in questa guerra dei Balcani hanno subito questo trattamento castigatore, che non è semplicemente bellico ma si propone di punire le città in quanto tali, di rifarne da capo la natura e la psiche, di abolirle. Altrimenti non si spiegherebbe l'accanimento speciale, la smania con cui sono stati presi di mira i luoghi costitutivi dell'esistenza urbana: le piazze del mercato, gli ospedali, le grandi biblioteche, i templi, i municipi, gli antichi ponti. A tanto accanimento gli occidentali non erano preparati, e per questo forse hanno assistito allo scempio come statue di sale: erano sicuri si trattasse di una disputa classica, fra nazioni e territori, che li riguardava indirettamente. Non erano preparati a una guerra che mirava al cuore stesso della civilizzazione occidentale. Al suo cuore cittadino, all'idea che in Occidente ci si fa della città: di come in essa si vive, si convive tra estranei, si circola, ci si nasconde, si fanno conoscenze, si mercanteggia. Vukovar, Osijek, Mostar, Dubrovnik e Sarajevo sono state castigate perché rappresentavano questa idea di città: città dove le stirpi familiari e tribali, a forza di circolare e mescolarsi, si dissolvono, creano l'individuo-cittadino, l'individuo-borghese custode della cittadella, della Burg. La guerra di purificazione etnica ha reintrodotto le stirpi e le separazioni tribali, nelle città, ha inchiodato di nuovo l'individuo alle famiglie e ai ghetti religiosi da cui si era divincolato. Un giorno fatidico fu quello in cui una bomba frantumò lo snello ponte di Mostar, il fermaglio prezioso sulla Neretva di cui parlano ancora le guide turistiche. Il ponte è un patrimonio classico della città, è un possedimento non di questa o quella tribù ma di tutti gli abitanti. E' una porta aperta che trasgredisce la naturale separazione delle cose, è puro artificio, arte dell'uomo. Chi ha in casa guide della vecchia Jugoslavia provi a sfogliarle. Ritroverà il Vecchio Ponte, Stari Most, costruito nel 1566 da Hajrudin, discepolo di Sinan, il più grande architetto ottomano. Ritroverà le cupole delle moschee poggianti su tamburi ottagonali, le fontane per le abluzioni alle soglie dei portici, le vetuste scuole coraniche, e la grande biblioteca di Sarajevo. Potrà immaginare i mercati, in antichi bazar. Tutto questo non esiste più. Vukovar, Sarajevo, Mostar sono ormai le città invisibili di cui narra Calvino. Sopravvivono nella memoria, come le città invisibili che anche Lewis Mumford, lo storico delle città, voleva sottrarre al genocidio che tutte le minacciava. Nel 1938, quando Mumford profetizzò «il cammino verso l'inferno», furono in molti a criticarlo: una guerra di sterminio contro le città sembrava impensabile, prima di Varsavia rasa al suolo. La sorte di Troia, Ninive e Babilonia non insegnava più nulla. «Delle città non resteranno che i meccanismi di digestione e respirazione», presentiva Mumford. Inutili i ponti e le biblioteche, se l'unico senso di una vita è respirare, digerire e dormire. Ba- sta un alloggio a misura dell'uomo, dicevano i primi urbanisti sovietici: non più grande di un letto, o di una tomba. Basta un ghetto che metta le genti in sala di rianimazione: per alimentarle, sorvegliarle, e punirle. Questa è la guerra dei Balcani: questo l'odio dei collettivi contro la città fatta di individui. Nelle città degli individui ci si conosce tra vicini ma non oltre un certo limite, perché la familiarità può essere una trappola, perché in famiglia ci si può permettere di non essere urbani. Quando il contatto col vicino diventa troppo stretto, nei borghi per esempio, l'odio si scatena. La città è il trionfo dello spirito blasé, disincantato, delle antipatie e delle leggere avversioni permanenti usate come scudi, scrive Georg Simmel nel 1903. Le piccole cittadine sono sensitive, affettive; nelle metropoli l'intelletto regna sovrano, così come regna lo scambio impersonale, basato sulla moneta: «La città mette in stretto rapporto l'economia monetaria e l'intel- letto: ambedue hanno la stessa maniera prosaica [reine Sachlichkeit) di trattare gli uomini e le cose, di associare la giustizia formale e la severità impietosa». La città è la sede del diritto oggettivo: indispensabile per via dei molti stranieri che la frequentano, ed esigono chiare, durevoli regole di convivenza. I fondamentalisti sono sempre contro le città ibride: nei Balcani, a Algeri, a Hebron. Contro questo spirito blasé, individualista, l'Oriente slavo e ortodosso si è ribellato più volte: in nome di legami più veri, di affetti più profondi, familiari, e di una Gerusalemme celeste sempre invocata. Dostojevski è preso dal panico vedendo Londra, e in particolare , il Palazzo di Cristallo, durante l'Esposizione Universale. In una Londra apocalittica, babilonica, vede l'uomo degradato a tasto di pianoforte. Alla metropoli occidentale oppone la fraternità, la rinuncia all'Io che si appella ai diritti e «sempre vuol fare le parti»: «La fratellanza costituisce la principale pietra d'inciampo in Occidente» («Note invernali su impressioni estive»). Ogni volta che l'Oriente slavo-ortodosso tenterà di realizzare questa Gerusalemme celeste dichiarerà guerra alle città occidentali. Anche il comunismo sovietico vorrà inizialmente «abolire le città», nonché il denaro. Non condividerà il tradizionalismo slavofilo, adorerà il Palazzo di Cristallo esecrato da Dostojevski, ma l'odio della città occidentale sarà analogo. Il risultato sarà quello descritto da Mumford: per l'urbanista Sabsovich, l'uomo non ha bisogno di più di sette metri qua- dri per vivere. I sette metri quadri diverranno quattro, nella Mosca sovietizzata. Lo stesso trasloco da San Pietroburgo a Mosca, nel 1918, è deciso in opposizione all'Occidente. Gli slavofili del secolo scorso già volevano allontanarsi da San Pietroburgo, dalla porta sull'Occidente e sul mare prescelta da Pietro il Grande. I comunisti realizzeranno il loro progetto: la capitale passerà dal mare all'entroterra, dalla porta aperta al sottosuolo della Russia: «Io ho il mio sottosuolo - si consola il protagonista di Dostojevski - ma sebbene noi siamo capaci di stare quarant'anni nel sottosuolo, in silenzio, una volta usciti nel mondo, una volta sfrenati, bisogna parlare, parlare...». Usciti dal sottosuolo, gli urbanisti dell'avanguardia russa parlarono molto, fra gli Anni 20 e 30. Si trovarono d'accordo con gli urbanisti dell'Italia fascista. Progettavano di rifare la psiche dell'uomo, ridisegnando le città. E questo loro progetto torna oggi alla ribalta, nei Balcani. Bogdan Bogdanovic, architetto e ex sindaco di Belgrado, denuncia l'urbicidio rituale in Croazia e Bosnia, e il progetto serbo non solo di distruggere ma di ricostituire una «Vukovar celeste, in stile serbo-bizantino», anticipazione e centro della promessa Serbia celeste: sempre le città sono state distrutte in nome di convinzioni inamovibili, di un ordine legato a una fede, a una classe, a una razza. Così i nostri architetti-assassini. Il grande Vuk (Stefanovic Karadzic, riformatore della lingua serba, nel '700, ndr) ci insegnò a suo tempo che coloro che si designavano come Srd, Srbalj, Srbo, non volevano ■ tre nelle città, essendo queste occupate da una plebaglia antinazionale di usurai, di tedeschi, e di cosmopoliti (Bogdanovic, «L'urbicidio ritualizzato», Architecture d'aujourd'hui, dicembre 1993). La lotta contro la città è eterna nella storia. Già Tacito notava: «E' abbastanza noto che le popolazioni germaniche non abitano le città, e neanche sopportano case congiunte tra loro. Vivono separati e sparsi, secondo li abbia attratti una fonte, un campo, un bosco. Dislocano i villaggi non al nostro modo, con abitazioni addossate le une alle altre». Molti secoli dopo, la fuga nel bosco contro la città sarà esaltata dai filosofi del nichilismo: dal Zarathustra di Nietzsche come dal ribelle di Jùnger. Ma l'assassinio rituale delle città non viene solo dall'esterno, dai sottosuoli. L'assassinio abita tra noi, e la disumanizzazione di cui parla Mumford avviene nelle nostre periferie, nelle nostre megalopoli: nelle città che riscoprono la soluzione dei ghetti, e che secernono crimine a Los Angeles o Ostia, a Lione o Solingen. Assai utile è andare a vedere la mostra sulle città organizzata al Centro Pompidou, a Parigi: si vedrà come l'ordine tribale è stato sistematizzato in Occidente, e come gli artisti hanno descritto la segregazione metropolitana: nelle periferie londinesi di Gustave Dorè, nelle città-solitudini di Sironi, nelle visioni apocalittiche degli espressionisti tedeschi. In queste città la società è esposta in primo piano, mortalmente. Inevitabile che arrivi il pugno di ferro degli architetti-psichiatri stile Karadzic, e che sulla vetrina non si esponga più altro che il potere assoluto. Gli architetti del Bauhaus disegnano Auschwitz come città modello, copiando dall'ordine dei mattatoi. «Per tutti coloro che vogliono riprendere il filo di una società omogenea e chiusa, Sarajevo simbolizza l'odio della città aperta e plurale, l'odio della vera città», dice Josep Ramoneda, uno dei curatori della mostra francese, direttore del Centro di cultura contemporanea di Barcellona. Forse per questo l'Occidente non sa perché doveva intervenire in Croazia, in Bosnia. La storia che sta accadendo lo minaccia, ma l'Occidente ha dimenticato di che storia si tratti. Non sapendo proteggere le proprie città e periferie, non sa perché dovrebbe proteggere l'idea di città a Sarajevo. Il giorno in cui scoprirà che anche le proprie città son divenute invisibili, sostituite da conglomerati tribali, forse quel giorno vedrà quel che ha perduto di se stesso, nelle guerre balcaniche. Barbara Spinelli L'Occidente intero ha dimenticato la storia: perciò non sa bene perché doveva intervenire L'abbattimento del muro di Berlino e Dostoevskij, simbolo dell'orrore slavo per la metropoli occidentale. In alto, immagini di Sarajevo e Mostar Le macerie come filosofia: daNinive e Troia a Varsavia