Toghe e capiclan alleati nel nome del denaro di Francesco La Licata

Toghe e capiclan alleati nel nome del denaro Toghe e capiclan alleati nel nome del denaro Raffaele CutoSFOGLIANDO le pagine di questa maleodorante storia di mafia e corruzione, diventa quasi minimalista il crudo realismo di «Le mani sulla città», il capolavoro di Francesco Rosi che colpì le coscienze di molti italiani. Già, il comitato d'affari, gli interessi economici anteposti alla morale, l'abbraccio tra politici e boss, l'ipocrisia del potere. Tutto ciò, ovviamente, resiste ancora e rivive nel «racconto» dei pentiti napoletani. Ma oggi è qualcosa di più. Quello che accade in queste ore a Napoli e dintorni - al di là di quanto riusciranno a verificare le indagini consegna a tutti noi il quadro disarmante di un potere illegale praticamente sostituitosi allo Stato, ci dà la sgradita certezza dell'esistenza di uomini affogati nell'ambiguità eppure attori di primo piano della cosiddetta società civile, a volte - come nel caso di alcuni dei magistrati inquisiti - addirittura nei panni di inflessibili «Torquemada». Giudici, avvocati, faccendieri, parlamentari, boss maliosi, assassini, stragisti, giornali e giornalisti, tutti insieme, nello stesso calderone. Tutti a lavorare per un solo «dio», il denaro e il potere, che spesso sono la stessa cosa. Tutti alle dipendenze della camorra che dispensa miliardi e agevola la strada a rapide carriere. Certo, qualche volta la frequentazione di ambienti e uomini non proprio edificanti può far ottenere favori e prebende, spesso può servire persino a salvarsi la pelle o a salvaguardarsi un futuro più roseo. Ma può bastare questo per giustificare l'esistenza, in una società civile, di una «cupola» diretta dalla mafia ma composta da rappresentanti delle più alte istituzioni? Cosa raccontano i pentiti? Che la camorra aveva trovato il modo per sfuggire ai rigori della legge. Come? Avvalendosi dell'amicizia di alcuni magistrati, spesso in combutta con avvocati coi quali erano persino «soci» in affari, che provvedevano ad «aggiustare i processi». Cioè a vanificare il lavoro di altri giudici, portato avanti tra mille difficoltà ed altrettanti rischi. Ad orientare, poi, l'opinione pubblica ci pensava il giornalista, intimo de! pens boss, boss, che in cambio poteva an¬ a rivelare per primo che la holding criminale sua e di Carmine Alfieri aveva istituito una «commissione permanente per la giustizia», con tanto di magistrati al seguito. Le sue dichiarazioni sono state confermate da altri otto collaboratori della giustizia. Ha parlato, sia pure senza dichiararsi pentito, perfino il vecchio «don» Raffaele Cutolo, capo incontrastato della Malapoli. ; «Lancuba era il consulente giuridico di Carmine Alfieri»: ha esordito così Pasquale Galasso, che ha cominciato a snocciolare un rosario di accuse contro la magistratura napoletana «paralizzata per vent'anni - come ha spiegato un altro pentito - da Antonio Gava che aveva rapporti stretti con Centrangolo, il vecchio capo della procura, e lo stesso Lancuba». Lancuba, ripete Galasso, è «una cosa sola» con l'avvocato Bargi: come «due fratelli carnali». Il sostituto che alla fine degli Anni Ottanta era capo dell'ufficio de¬ nunce è stato protagonista di quasi tutte le inchieste più delicate a Napoli nell'ultimo decennio. E' lui, affermano i giudici di Salerno, «che aggiustava i processi indirizzandoli dall'ufficio denunce, che era il vero centro di potere della procura». Le accuse sono gravi e circostanziate: il potente magistrato «legatissimo a Gava e Scotti» avrebbe tentato di addomesticare il processo per la strage di Torre Annunziata, costata nell'84 la vita a otto persone e attribuita al clan Alfieri. Le indagini, raccontano i magistrati, furono affidate a un altro sostituto procuratore, ma Lancuba si inserì «senza averne la delega». Ed è ancora lui che, nella seconda metà degli Anni Ottanta, tentò di mettere la parola fine al caso Cirillo, chiedendo l'archiviazione dell'inchiesta imbarazzante per lo stato maggiore della de. Non ce la fece, perché il giudice istruttore Carlo Alemi decise per il sì al processo. Cosa otteneva in cambio il sostituto procu¬ ratore? Potere, certamente, ma anche soldi, pellicce per la moglie e altri regali, come uno splendido appartamento sull'Amalfitana. L'altro magistrato finito in carcere, Vito Masi, non sarebbe da meno del suo collega. Almeno così dicono i pentiti, che lo accusano di corruzione: «Voleva cinquanta milioni per una sentenza favorevole in un processo per estorsione celebrato contro Galasso nel '90. Arrivammo a lui grazie a un amico comune, l'on. Demitry». Racconta Galasso che un certo Alessandro Nocerino lo avvicinò un giorno dicendogli: «Don Pasqua', ho anticipato personalmente a quel cornuto 30 milioni di tasca mia». Il processo finì male per il finanziere della camorra, condannato grazie al parere favorevole degli altri due componenti della corte. Ma Vito Masi, sostiene l'accusa, si battè come un leone per l'assoluzione. Raffaele Cutolo Fulvio Milone che chiedere l'assunzione del figlio presso un giornale, anche «minore». C'era, in sostanza, chi si esponeva alla rappresaglia criminale e chi di tanto valore faceva occasione di guadagni (facili) e carriere. Ecco come il pentito Pasquale Galasso descrive l'intrigo a Palazzo di giustizia: c'è il camorrista inguaiato giudiziariamente che si rivolge ad un avvocato. Non ad uno qualunque ma a quello che è in confidenza (leggi «soci j») col giudice. «Se mi fai assolvere - gli prospetta - ti potrò essere molto utile. Posso darti tutto quello che vuoi». Cosa? Presto detto: l'appoggio in campagna elettorale che, tradotto, significa soldi e pressioni sull'elettorato. E il penalista si avventura, qualche volta con successo, nella scalata al Parlamento. Una tentazione, quella della poli- tica, che non ha risparmiato, né in passato né oggi, alcuni dei protagonisti del nuovo scandalo napoletano. Dino Bargi (il legale indicato come «socio» del procuratore Lancuba) candidato per il «Patto per l'Italia», il giudice Lello Sapienza in corsa per «Forza Italia», il già noto avvocato Marcucci parlamentare uscente e addirittura ex vicepresidente della commissione Giustizia della Camera. Tutto questo ha detto Galasso, ma non solo lui. Appare chiaro, ormai, che la procura antimafia di Salerno, firmataria dei provvedimenti, deve avere in mano molto di più. Forse ha parlato anche Alfieri, confermando la «prima ondata» di Galasso, forse qualcosa l'ha ammessa persino don Raffaele Cutolo, sentito come teste. Ecco come è stato possibile scoperchiare questo pozzo nero. Un magma niente affatto rassicurante, specie se si tiene conto che tra gli inquisiti spiccano nomi di giudici sino a ieri considerati come «grandi moralizzatori». Non è stato forse il magistrato Arcibaldo Miller oggi «avvisato», a mandare nella polvere, con l'inchiesta sulla malasanità, il ministro De Lorenzo? E il giudice Sapienza non si è occupato degli scandali del dopo-terremoto? Da accusatori ad accusati. Poter za dei pentiti. ata aia Francesco La Licata aia

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