Odalische nell'obiettivo per incantare «Vogue» di Marco Vallora

Dal Moravia Anni 50 all'androginia di Stéphanie di Monaco l'interpretazione del gran mondo Milano riscopre la magia di Horst P. Horst dedicandogli una personale Odalische nell'obiettivo per incantare «Vogue» $MILANO UANTE volte ci siamo imbattuti nella celebre immagine dandy 1937 di I Luchino Visconti, con la sua allure molto tweed ed una rassomiglianza messicobunueliana, circonfuso come da una soffice nuvolaglia di vanità? Od in quella réverie abbandonata e melanconica di Coco Chanel, modellata come un giunco di Thonet, naufraga nella sua sognante dormeuse rococò? Od in quell'immagine ancora più simbolica, acida di Edith Sitwell, l'ingobbito profilo di diaspro, la cuffia di garza, e le mani bardate di anelli, che si abbarbicano come pugnali su un troneggiarne libro sapienzale? Quante volte abbiamo capito finalmente un personaggio, cancellando ingiustamente l'artefice di quel prodigio, il mago segreto di quell'istantanea rivelatrice? Ben venga, dunque, questa splendida mostra-risarcimento, all'Idea Books di Milano, via Vigevano 41. Horst P. Horst, così si naturalizzerà l'americano, si chiamava in realtà Bohrmann. C'era un'«h» di più, è vero, a salvarlo, ma gli dava troppo fastidio quella possibile identificazione col boia nazista: veniva dalla Germania orientale, da una cittadina in cui Bach aveva volentieri suonato l'organo. Lo esalta il clima, più che l'austerità, del Bauhaus, scrive a Le Corbusier e viene subito accolto nel suo studio. Ma lo gela quella razionalità asettica e ghiaccia: se ne va, affidandosi alla fotografia. E' molto più vicino ai surrealisti, adora Dalì, che spesso rimette in scena, negli sfondi animati delle sue magiche stanze della moda. Man Ray, più cerebrale di lui, gli ha dato comunque il coraggio di osare: Vogue lo adotta. I suoi sfondi sono sempre mobili, eccentrici, teatrali: rischiano di far dimenticare le modelle. Ama l'oscurità, la «grottosità»: stalagmiti, conchiglie, nicchie. Un odore muschioso di caverna preistorica, le mannequin come deliziosi brontosauri. Venne uno stilista stizzito, un giorno, con una pila «per illuminare almeno l'abito», disse. Ma era così straordinario che persino il marketing americano dovette tollerarlo. Come una spugna filtra l'air du temps, «dipinge» i sui scenari con levità alla Lila De Nobili, alla Christian Bérard. Molto lo influenza Cocteau, con le sue trasparenze, i suoi specchi gonfi di cielo. Non vuole smascherare gli inganni, come Cecil Beaton, anzi, moltiplicare le illusioni. Dopo la festa è un'efflorescenza notturna di accatastate seggiole da giardino, fitzgeraldiani scheletri del divertimento: la diresti un'astratta partitura di Cage. Sceglie prospettive per lo più sghembe, manieriste, mobili: baldi trasportatori sottraggono gli scenari dietro le stuccate modelle, una misteriosa levità cancella ogni legge di gravità. Vige come un lunare regime di souplesse, tutto galleggia, esta- tico: frammenti d'anatomia, privilegiati dalla luce. Ma non con la casuale, voluta rudezza del Bauhaus: tutto è prestabilito, concertato da un sapientissimo gioco estetistico. E non c'è nemmeno l'ebbrezza sportiva del volo di Lartigue: c'è semmai il compiacimento da prestigiatore di un Méliès. Per Pucci, un'instabile cordata di modelle scala la cupola di Brunelleschi; per un altro stilista la modella non è che un filino di Miss, con gli occhialini da zitella forsteriana ed il Baedecker in mano, che sfida intimorita un patchwork gigantesco di stoffe a collage, come esitando ad entrare in scena. La scena è sempre abitata da linee curve, arabeschi, velari. Come in Von Sternberg, certamente, ma se questi schermava per perversa scopofilia, copriva per spogliare di più, Horst moltiplica filtri per appuntare meglio lo sguardo: quasi una perfida, infallibile matita. E temibili sono anche le sue modelle: autentiche nobildonne umiliate in terra, sfingi della modernità intrappolate nella lingerie, allarmanti sibille che auscultano pareti lavorate alla Fautrier o odorano smisurati fiori sintetici. Anche se un vento immobile, archeologico ghiaccia queste forme ingessate nello stampo d'un nitore canoviano (è lo stesso vento dei versi di Kavafis, dei racconti di Nor- man Douglas e poi delle fotografie di Herbert List) le sue mannequin non vivono mai una vita liberata. Fuoriescono da botole come Salomè, si piegano a riecheggiare le pose innaturali delle odalische di Ingres, si costringono entro torturanti corsetti che evocano i costati squartati di Vesalio, si confrontano con le imbalsamate sculture di Segai. C'è sempre un inizio di fotogramma, nelle sue istantanee: da quella Natura morta di cenere e baguette potrebbe prender vita un film di Hawks, o di Ophuls. Non sono stili life metafisiche, le sue, ma trappole romanzesche: come quell'attacco chandleriano di storia, uno smalto per unghie ed il balletto arpinante di prensili dita a pagoda, che si abbatte imprevedibile sulla scena. Oppure la torturante macchina d'una maschera di bellezza, sullo sfondo di un Bosch. Il ventre peloso e conturbante di un carciofo squadernato come per un sabba, perturbante come un objet trouvé surrealista. A Horst - allievo esacerbato di Weston e Steichen - basta avvicinare l'«orecchio» dell'obiettivo. Farà così anche con la Callas, maliziosamente accostando il bacio mortale della macchina, entrando nel fogliame della sua carnagione. Prodigiosi sono sempre i suoi ritratti. Ancora Visconti, giovin signore nella Hammamet non ancora polluta di Craxi, il foulard alla Paul Bowles e l'amertume crepuscolare del bourbon sulla soglia di casa. Nicholas de Gunzburg, con i suoi pensieri chiusi come polsini, mentre Irving Penn ha l'aria confidenziale e dimessa, di chi conosce i trucchi del mestiere. Tombly, che sbarca ironico da una sua macchinona, ancora Oliver Hardy, mentre Jean Marais, profilo-fantasma a Venezia, sulla sagoma di San Marco, si cattura poi nel marchingegno di specchi narcisistici del suo travaglio di scolaro d'autoritratto. Ancora una volta, la geo¬ metria: il piegarsi asimmetrico d'Elsa Schiapparelli dentro l'ovale dello specchio, con quel cappello modulato come un perizoma di martire berniniano. 0 il perfido congegno di sguardi, con Erickson che ritrae la mummia in carrozzella di Gertrud Stein, sullo sfondo d'un Marie Laurencin. E' incredibile come Horst colga le sfumature: l'adenoidea solitudine del proprio corpo di Saint Laurent, la paciosa contadinità di Manzù, la ferita riserbatezza di Ingrid Bergman, Bob Wilson bamboccio infraccato, la conturbante androginia di Stéphanie di Monaco, e la duchessa di Windsor, in quella sorta di pigiama morale che le imbusta l'esistenza. E poi un Moravia tutto Anni Cinquanta, solido nella sua petrosa sordità malapartina, che ruota perplesso il proprio corpo verso l'obiettivo, lasciando vedova per un istante la sua fida Olivetti. E la vuota pensosità karajanesca di Zeffirelli, tenebroso atteggiato. Mentre malignamente il vero Karajan, a Kitzbùhel, in un'auto decappottata che quasi simula l'abitacolo di un aereo, chiude gli occhi come per un riflesso condizionato, e guardinga vigila al suo fianco una tesissima Eliette. Come sono conciliate, finalmente, le mani nervose di Toscanini, così mesto in quella posa senatoriale. E come naviga, disperata e sola Bette Davis, in quella gulliveriana seggiolona da Mago di Oz. Ma forse l'immagine più vera e crudele, è quella desolata di Diamante Luling Buschetti, nobile bambina abbandonata sulla chilometrica ricchezza d'un corridoio di Villa Maser. Perfino il cagnino, è un inutile piumino d'autismo. Marco Vallora Marlene Dietrich, foto del '49 Scoprì per primo la vena dandy delgiovin signore Luchino Visconti Dal Moravia Anni 50 all'androginia di Stéphanie di Monaco l'interpretazione del gran mondo «Odalisca», una foto scattata nel '43. Sopra, «Barefoot Beauty», del '41

Luoghi citati: Diamante, Germania, Milano, Monaco, Venezia