Nel Lager le notti dei corvi

la la memoria. Una nevicata sull'altopiano rievoca il passato: Rigoni Stern racconta l'inverno '44 in Polonia Nel Lager, le notti dei corvi «Benvenuti alla baracca dei pidocchi» A ASIAGO Il UESTA notte nevicava, 11 poi la Luna calante verso li le cinque del mattino e -V I comparsa tra le nubi. La v mente vagava e vagava nei ricordi: come questa notte il 7 febbraio del 1924 ero... E ricordavo la vecchia casa di via Monte Ortigara dove il focolare era sempre acceso. I ricordi venivano avanti di dieci in dieci anni ma fu su quell'inverno del 1944, giusto cinquant'anni fa, che più a lungo mi soffermai. Finché dietro la montagna apparve la luce dell'alba dentro un cielo lattiginoso. Come quelle albe nel Lager 1/B, nella Masuria, dove la malinconia e la privazione della libertà gravavano sul cuore. Solo un anno prima camminavo per l'Ucraina e la Bielorussia, ed era lontana l'Italia. Eravamo rimasti pochi compagni, a giorni mi seguivano da villaggio a villaggio, altri giorni, ultimo della fila, li incitavo a camminare. Ora ero qui tra i reticolati a rodere la mia rabbia accumulata in quell'8 settembre del 1943 e a consumare il cuore nella nostalgia. Attraverso le fessure della Aufnahmebaracke vedevo filtrare la luce e sotto la coperta legnosa cercavo di raccogliere un po' di caldo dal saccone di trucioli. Ero capitato qui chissà per quale caso: un sergente molto anziano che era stato richiamato dopo il 25 luglio, caduta del fascismo, si era rifiutato di prestare servizio nella «Baracca dell'accoglienza», aveva preferito uscire dal Lager e andare al lavoro con i gruppi di prigionieri. Il giorno dopo, quando eravamo tutti in fila per cinque nello spiazzo della conta, il Lagerfeldwebel Braum con un cenno mi fece uscire dalla fila, poi disse un numero e un alpino uscì anche lui. Ci disse di seguirlo e non capivo cosa stesse succedendo. Attraversammo tutto l'immenso campo: i gruppi di baracche dove eravamo stati rinchiusi noi della Tridentina, i gruppi dei prigionieri russi, quelle baracche - Lager dentro il Lager - dove erano rinchiusi ufficiali superiori dell'Armata rossa. Recinti alti di reticolati dentro altri recinti, con sentinelle nei passaggi e torrette con mitragliatrici e fari negli angoli. Passammo le baracche del Kommandantur, le cucine, quelle degli archivi dove ci avevano preso le impronte digitali, schedati e fotografati con il numero sul petto, le baracche del Lazarett e ancora baracche con prigionieri russi. In fondo, in un angolo estremo, c'erano le baracche per la disinfestazione dai pidocchi, la discarica dei rifiuti e YAufnahmebaracke. Eravamo parecchie decine di migliaia, noi abitanti dell'I/B, e su tutti tiranneggiava il Lagerfcldwobel Braum, sempre con la pistola in pugno e le sue brevi urla raspose. Con un cenno alla sentinella fece aprire ancora un varco e ci fece entrare nell'ultima baracca. Disse qualche parola e capimmo che il nostro compito d'ora in avanti era accogliere nella Aufnahme i gruppi che uscivano dallo spidocchiamento o che dovevano andarci, prelevare le razioni per costoro finché non venivano inviati al loro destino e pulire le latrine e tutto il resto dopo il loro passaggio. «Verstanden?» «Sì, capito». La baracca era divisa in quattro parti da pareti di tavole; in una di pochi metri quadrati eravamo noi due italiani, in un'altra uguale due prigionieri russi, tra noi e loro una latrina che per accedervi bisognava uscire all'aperto, infine il posto dove dovevano sostare gli spidocchiandi: era grande e squallido, in terra battuta il pavimento e nessun pancone, niente per riscaldare. Dovevano aspettare sdraiati per terra. Niont'altro. Fuori una sentinella camminava avanti e indietro sulla neve e nell'angolo, sulla torretta di legnami, la mitragliatrice con il nastro infilato e i il tiratore dietro. Nella piatta e disadorna campagna innevata si alzava l'ottagonale mausoleo in mattoni rossi dove era sepolto Paul von Beneckendorf und von Hindenburg, l'eroe di Tannenberg e dei Laghi Masuri dove il 29 agosto del 1914 l'esercito dello Zar Nicola subì la grande sconfitta. Nuvole nere di corvi veleggiavano attorno all'alta torre di mattoni e quando le carrette trainate dai prigionieri russi venivano a scaricare le immondizie del Lager, tutti i corvi, gracchiando, venivano per razzolarci dentro. Dai sottocampi o dai distaccamenti dei prigionieri che lavoravano nei boschi o lungo la ferrovia per Leningrado, ogni tanto giungevano nella nostra baracca i gruppi che avevano aderito alla repubblica di Salò. Dicevano che molto presto sarebbero ritornati in Italia, che avrebbero avuto una licenza. I più avevano ceduto per la fame e per il durissimo lavoro, ma c'erano pure quelli che credeva¬ no nella vittoria finale e nelle armi segrete di Hitler. Fu da questi «volontari» che potei avere un rasoio per radermi; un marinaio mi regalò anche un lenzuolo che poi vendetti a una sentinella per un chilo di pane. Un alpino mi lasciò un cappotto russo, da questo ricavai e cucii un berretto con paraorecchi, due paia di calzerotti e uno di guanti. Un giorno sentii uno che parlava con la cadenza dialettale della mia provincia e lo pregai, una volta giunto in Italia, di comunicare a casa mia che ero vivo e in salute. Da sei mesi non avevano mie notizie e chissà quanto mia madre era in ansia. Gli diedi anche un biglietto che premurosamente fece recapitare in via Monte Ortigara. Ancora lo conservo. Con i nostri vicini russi ci era rigorosamente vietato di parlare, ma quando uscivamo per la pulizia delle latrine quasi sempre riuscivo a sgattaiolare da loro. Nacque così una fraterna amicizia che ancora ho cara nella memoria. Piotr Ivanovic era sergente carrista, siberiano e ingegnere; Ivan era invece un giovane operaio ucraino, iscritto al Komsomol e fervente comunista. Tutte due erano stati catturati feriti in una delle grandi sacche del 1941. Piotr ora riuscito a procurarsi una balalaika e la sera suonava struggenti canzoni. Da loro cercavo di sapere l'andamento della guerra perché i gruppi di prigionieri che sostavano per lo spidocchiamento portavano sempre notizie fresche dal fronte. Alla fine di febbraio arrivarono dei feriti. Sommariamente fasciati, pur in quelle misere condizioni, non sembravano certo dei vinti, anzi dimostravano dignitosa fierezza e grande disprezzo verso le sentinelle e il Lagerfeldwebel Braum e la sua pistola. Erano stati catturati da pochi giorni sul fronte Est e dai luoghi da dove provenivano capii che i tedeschi avevano ripiegato di almeno cinquecento chilo¬ metri da dove erano nell'inverno precedente: Odessa era stata raggiunta dall'Armata rossa; Leningrado da mesi ormai era stata liberata dall'assedio e nel centro dell'immenso fronte i Carpazi non erano più lontani. Per l'esercito del «millenario» Terzo Reich era incominciata la nemesi. Ho voluto ricordare quel tempo ai nostri lettori perché oggi, così frastornati da notizie e immagini, mi pare sia facile dimenticare il passato. Anche a scuola dove sono tanti gli insegnanti che nelle lezioni di storia si fermano alla Prima Guerra Mondiale. E poi più volte mi è capitato di leggere date sbagliate, episodi falsati, interpretazioni superficiali. Una sera, al telegiornale, mi capitò di sentire «...nel 1944, quando inglesi e tedeschi combattevano contro l'Unione Sovietica...». Feci un sobbalzo sulla sedia e spensi il televisore. Mario Rigoni Stern «Così accoglievamo i nuovi arrivati» «I repubblichini erano sereni. Dicevano: presto torneremo in Italia» «La televisione, oggi, tradisce la Storia» I soldati italiani dopo la sconfitta sul fronte russo. Lo scrittore Mario Rigoni Stern rievoca la vita nei campi di concentramento dei tedeschi nell'inverno 1944

Persone citate: Hindenburg, Hitler, Mario Rigoni Stern, Paul Von Beneckendorf, Piotr Ivanovic, Rigoni Stern