A Mogadiscio sbarca il colera

Comincia il ritiro mentre nel Paese dilaga il morbo, si temono 5000 casi Comincia il ritiro mentre nel Paese dilaga il morbo, si temono 5000 casi A Mogadiscio sbarca il colera Amarezza tra i soldati italiani in partenza Quindici mesi tra i pericoli «Quante cose potremmo ancora fare» LE PIAGHE DEL CORNO D'AFRICA MOGADISCIO DAL NOSTRO INVIATO L'elicottero si posa sul ponte della motonave San Giorgio, all'ancora a poche miglia dalla costa: rapidi i sedici bersaglieri balzano fuori con i loro sacchi, le armi, le munizioni. Sono gli ultimi soldati italiani del presidio di Belet Uen: poco meno di un'ora fa erano ancora appostati dietro i sacchetti di sabbia messi a protezione del campo mentre i loro commilitoni venivano evacuati sulla nave ferma in rada con gli elicotteri. A mezzogiorno la San Giorgio è partita per Mombasa dove arriverà dopo 36 ore di navigazione: sabato mattina i 250 bersagliere verranno trasportati in Italia con un aereo dell'Onu. In questo modo, quasi in sordina, è incominciato il ritiro del contingente italiano dalla Somalia. Alle spalle si lascia una situazione resa ancora più drammatica dall'infuriare del colera. A Mogadiscio otto persone sono morte, una cinquantina sono ricoverate in un lazzaretto allestito dai nostri militari nei pressi dell'ospedale Forlanini, dove sono assistite dal dott. José Bastos, di Médecins sans Frontières, che fa previsioni drammatiche: «Questa epidemia arriva da Gibuti e si è diffusa a Bosaso, Belet Uen, Bulu Burti, con più di 500 ammalati. Adesso è arrivata a Mogadiscio: purtroppo le condizioni igieniche sono pessime, mancano i medicinali, se non si provvede al più presto io temo che almeno cinquemila si ammaleranno». Anche per questo non c'era allegria al momento della partenza, si avvertiva anzi un senso di malinconia, una vena di tristezza. Certo, i ragazzi in tuta mimetica, bruciati dal sole africano, erano felici di tornare a casa dopo mesi di lontananza, ma quasi tutti confessavano di provare un certo rimpianto nel partire perché «qui ci sarebbe ancora tanto da fare, questa gente ha bisogno di noi, chissà cosa accadrà adesso». Per il gen. Cannine Fiore, comandante del nostro distaccamento, incontrato nel campo di Balad, dove si sta lavorando freneticamente per la partenza, il presidio verrà abbandonato entro il 10 marzo, non ci sono dubbi: «Abbiamo la coscienza a posto, abbiamo fatto il massimo che potevamo con i mezzi e le possibilità che ci sono stati forniti. Siamo arrivati fra i primi e andiamo via fra gli ultimi». Però la nostra partenza viene vista dai somali quasi come un tradimento, perché dicono che al nostro posto arriveranno dei soldati di Paesi mercenari, al soldo degli americani. «Bisogna capire questa gente: noi con i somali siamo in un rapporto di amore ed odio. In noi hanno visto gente che ha dato tanto e non capiscono perché ce ne andiamo. Si sentono traditi anche perché al nostro posto vengono altri Paesi che non hanno le nostre possibilità e, soprattutto, i nostri legami tradizionali e culturali. Partendo noi viene a mancare un importante punto di riferimento, ma abbiamo creato le premesse perché tutto quello che abbiamo fatto venga mantenuto: la maggior parte del- le nostre attività, scuole, ambulatori medici, ospedale, viene rilevato infatti dalle Ong italiane». Come sta accadendo a Johar, dove i nostri militari hanno allestito nell'ex-residenza del governatore un ospedale con sala chirurgica, gabinetto radiologico, laboratori, reparti di ginecologia, pediatria, ortopedia, medicina generale che proprio in questi giorni viene preso in consegna da quattro medici e cinque infermieri dell'Ong InterSos. Sono già arrivati il dottor Nino Sergi e l'infermiera Chiara Lucifero, 23 anni, che aveva già prestato servizio in questo ospedale per cinque mesi Il leader cetnico Seselj lancia nuove minacce «Colpiremo le città italiane indifese della costa» :s;f::! Fra le tante cose realizzate dai nostri soldati per aiutare la popolazione, ci sono le 65 scuole aperte a Mogadiscio, nei due settori, e il poliambulatorio di fronte all'ambasciata, che verrà preso in consegna dai medici dell'InterSos, mentre le scuole sono state affidate ai volontari del Cefa. Alla realizzazione delle scuole si è dedicato anima e corpo il ten. col. Giorgio Cannarsa che ancora adesso, a pochi giorni dalla partenza, si danna per trovare quaderni, materiale didattico, porte, finestre. «Togliere i bimbi dalle strade, dargli almeno un pasto caldo al giorno, ricostruire il tessuto sociale: sono queste le priorità da rispettare», dice. Sono 16 mila i bambini che frequentano le 65 scuole, assistiti da 1100 insegnanti e ausiliari somali che vengono retributi col sistema «food for work» (cibo per lavoro). E queste «classi» sono alcune delle poche, pochissime cose che funzionano in questa città dove ogni giorno la situazione peggiora: ormai è praticamente impossibile passare da un settore all'altro, la strada che collega il porto all'aeroporto, nel quartiere Ameriwine, è infestata dai morian, l'altro giorno hanno sparato contro l'auto di un nostro connazionale, il signor Incandela: una pallottola ha mandato in pezzi il parabrezza, altre due si sono conficcate nella carrozzeria. Sulle donne e sui bambini della Somalia ora incombe anche la minaccia di una epidemia di colera .' ....-ivi'»;,.' come crocerossina ed è tornata come volontaria «perché io credo che quando uno comincia deve andare avanti». Ogni giorno, spiega il col. Paolo Borrata, del Corpo sanità, vengono visitate in media 250 persone, «oltre 200 mila dal dicembre 1992 ad oggi, con più di 550 interventi chirurgici e oltre diecimila giornate di ricovero». Mercoledì i chirurghi militari hanno effettuato il loro ultimo intervento su un ragazzo di 15 anni, ferito dalle nostre sentinelle a Balad mentre si introduceva nell'accampamento con un altro somalo, che è rimasto ucciso. Era accaduto verso le 10: i due avevano scavalcato la recinzione quando sono stati avvistati dalle sentinelle ma invece di fermarsi avevano cercato di intrufolarsi in mezzo alle tende e i militari erano stati costretti a sparare. Il ferito, colpito al ventre da due pallottole, era stato portato in elicottero all'ospedale di Johar. Le sue condizioni erano disperate ma dopo un intervento durato sei ore, con una temperatura all'interno della sala operatoria superiore ai 40 gradi, non corre più pericolo. Fra tre o quattro giorni i militari abbandoneranno Johar, nell'ospedale rimarranno soltanto i medici e gli infermieri dell'InterSos, affianca¬ ti da venti infermiere somale. La loro protezione è affidata ai gendarmi somali: «Noi speriamo di poter continuare, la popolazione è con noi, ma bisogna fare i conti con i morian, i banditi - dice il dott. Sergi - speriamo anche che i medici somali che stanno all'estero vengano ad aiutarci. Sono pronti, ma hanno paura per la loro sicurezza. Sinora ne è arrivato soltanto imo». E' il dott. Mohamed Mumin, laureato a Leningrado e specializzato in chirurgia all'università di Pisa: «Sono venuto a vedere come vanno le cose, poi lo spiegherò ai miei colleghi e spero che torneranno in molti». Francesco Pomari EX JUGOSLAVIA

Persone citate: Cannine Fiore, Del Corno, Giorgio Cannarsa, Incandela, José Bastos, Mohamed Mumin, Nino Sergi, Seselj