IL CALVARIO DELLA FIRST LADY

Cronache LA STAMPA NEW YORK NOSTRO SERVIZIO «Preghiamo per Jacqueline Kennedy perché è molto malata»: l'esortazione ai fedeli è stata fatta dal cardinale Joseph O'Connor, il vescovo di New York, durante la messa di domenica, e la sua iniziativa in piena funzione religiosa è suonata come una sorta di conferma alle voci dei giorni scorsi secondo cui le condizioni di salute della ex First Lady sarebbero molto più gravi di quanto non si supponesse. A Jackie, come si sa, è stato diagnosticato un tumore. La notizia era stata data un paio di settimane fa dai tabloid, ma gli stessi amici che l'avevano confidata avevano aggiunto che secondo i medici non erano ipotizzabili pericoli imminenti e che c'era molta fiducia nella chemioterapia cui la vedova di John Kennedy veniva sottoposta. Ora, l'uscita IL CALVARIO DELLA FIRST LADY MWASHINGTON ICHEL Bouvier cominciava a diventare nervoso, molto nervoso. Nell'atrio della Casa Bianca, raccolti attorno a una montagna di caviale nero Beluga, regalo personale di Nikita Kruscev al nuovo Presidente americano, i «clan» delle due famiglie Kennedy e Bouvier erano ancora troppo occupati a congratularsi l'un altro e ad abbuffarsi per accorgersi di niente. Ma lui, Michel, il cugino prediletto, il confidente, contava i minuti: erano le 4 e mezzo ormai, di quel 20 gennaio 1961 giorno dell'insediamento di John F. Kennedy alla presidenza degli Stati Uniti, e la festa «riservata alle Famiglie Kennedy e Bouvier» come diceva il cartoncino d'invito, era cominciata già da 40 minuti. Ma di lei, di Jacqueline Bouvier Kennedy, della nuova «First Lady» ancora non si vedeva ombra. Con passi discreti, Michel si arrampicò sulle grandi scale di marmo italiano che portano al piano superiore, agli appartamenti privati. Corse lungo i corridoi pitturati di un lugubre verdolino ministeriale, in un «decor» che la stessa Jackie, disgustata, definirà «un incrocio fra un carcere del Kgb e un motel di provincia», aprì la porta della «Queen's Room», la stanza da letto dove erano ospitate le regine in visita a Washington e scoprì con orrore la ragione del suo nervosismo. Seduta in sottoveste sul letto, circondata da un plotone di pettinatrici, sarte, manicure, truccatoci, guardarobiere, segretarie, stava una larva di donna, pallida, gli occhi sbarrati: la cugina Jacqueline. «Jackie, ma che fai, ma ti aspettano tutti da un'ora». Lei lo guardò senza espressione. «Jackie» la scosse lui, prendendola per le mani, gelide. «Non posso», rispose la donna. «Non posso». Non puoi cosa? «Non posso scendere, non posso vivere in questa casa cimitero, non posso fare la First Lady, non posso, non posso, non posso. E non insistere, Michel». Il cugino stava per arrendersi, quando alle sue spalle, nel riquadro della porta si stagliò un'altra figura, quella del Presidente. «Jackie, ti aspettano tutti. Scendi subito», intimò e richiuse la porta. Venti minuti dopo, avvolta in un lungo di seta bianca firmato da Oleg Cassini, i capelli neri raccolti nello chignon del parrucchiere Kenneth, il sorriso fissato su quel volto dagli occhi scuri e lontani che tutto il mondo avrebbe da allora in avanti imparato ad adorare, Jacqueline Kennedy Bouvier entrava nel salone delle feste, sospirando all'orecchio del cugino: «The show must go on», lo spettacolo deve cominciare. Ora lo spettacolo sta finendo. Allora pochissimi sapevano, e nessuno parlava. Sarebbero stati necessari 30 anni, un assassinio politico, cata- Cronache

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