UN SERIAL KILLER CHE VIENE DA RAVENNA

UN SERIAL KILLER CHE VIENE DA RAVENNA UN SERIAL KILLER CHE VIENE DA RAVENNA che vuole ricostruire la vita, partendo magari da un omicidio e un rapimento. Intorno le facce dure di poliziotti insonni e lacerati, e un'America di maniera. «Amo gli Stati Uniti e li ho visti direttamente - dice Monica Vodarich -. Ma il paesaggio metropolitano che descrivo è quello immaginario filtrato attraverso letture e film. Ho scelto l'America inconsciamente, perché la storia di un serial killer si può ambientare solo in quegli spazi immensi, dove la mente di un folle naufraga senza ancoraggi. Mi sembra che un maniaco omicida non possa girare per le strade di Ravenna, parlare alle sue vittime con accento romagnolo, chiamarsi Cappelletti». Monica Vodarich conserva nel cognome l'origine croata. Il padre partì da Cherso oltre trent'anni fa, per lasciarsi la miseria alle spalle e perché i nonni, ferventi cattolici, si sentivano pesantemente limitati nella libertà di culto. La sua scrittura è aspra, efficace, immediata. Si nutre di letture, ma soprattutto di vita. E non conosce farraginosità scolastiche («Presa da una libidine di indipendenza ho smesso di studiare dopo la terza media e ho cominciato subito a lavorare»). Impiegata in un'agenzia di servizi fotografici nautici ha girato il mondo al seguito delle maggiori regate veliche. Da sei anni si occu- ERAVENNA CRITTRICE per caso. Monica Vodarich, ventotto anni, è arrivata al romanzo presa per mano dalla dea bendata. Ha ideato un thriller, lo ha digitato sul computer dell'ufficio nelle pause di lavoro («sono arrivata all'ultima pagina perché una collega voleva sapere come andava a finire») e ha lasciato che un'amica lo inviasse al concorso del mensile Cento Cose-Energy (lo stesso che nell'88 rivelò Lara Cardella). Il dattiloscritto è stato scorciato di un centinaio di pagine, sottoposto a un po' di editing (anche se qualche ripetizione è stata trascurata e il redattore ha dimenticato due «1991», in una vicenda che si svolge serratamente nel 1990), ed è diventato libro per le edizioni della Tartaruga col titolo Una trappola per Peggy (pp. 220, L. 24.000), nella collana che ospita la Highsmith e la Cross. Duro e incalzante, il romanzo della Vodarich ricorda la narrativa giallo-nera americana degli Harris, dei King. Come in un film, accompagna le storie di tre personaggi in lotta con gli angoli bui della propria coscienza; un serial killer che ama sgozzare e violentare giovani donne di colore per liberarsi da un fantasma che lo soffoca, una bella arredatrice nera con un figlioletto autistico, un fallito Un sobborgo di Detroit pa di volontariato (vocazione cittadina: nella piccola Ravenna ci sono 64 gruppi), nell'Associazione Nazionale Volontari Lotta contro i Tumori, che segue i malati terminali poveri e soli. «Sappiamo che non possiamo modificare il loro destino, ma ci diamo da fare per alleviare le sofferenze, per regalare parole di conforto. La sensazione di impotenza è terribile. Forse l'impulso di scrivere nasce proprio da un senso di ribellione, mi serve per dimenticare il dolore che ho assorbito». Anche la claustrofobia -istologica del romanzo trovr "\ nella realtà. Vodarich lavo j «Linea Rosa», un centro pt ' • -'tenza alle donne che hanno ..ubito violenza. Decine di storie di quotidiana follia, di famiglie in macerie. «Si rivolgono a noi donne impotenti, timorose di non essere credute. Si Monica Vodarich: esordio thriller con «Una trappola perPegg)-» Cinque ore al giorno affannano a portare prove per dimostrare che il marito le picchia. Sono macerate da un perverso senso di corresponsabilità per quanto è avvenuto, si sentono complici dei loro carnefici. Trovano la forza di ribellarsi solo quando vedono che la violenza dei mariti si riverrà. che sui figli». Paura della morte, paura di se stessi. Una trappola per Peggy ruota con disinvoltura intorno a ossessioni, come le altre duemilacinquecento giovani scrittrici che hanno partecipato al concorso Cento Cose-Energy. Le lettrici (tra i 25 e i 35 anni) - dicono alla rivista sembrano incapaci di scrivere l'amore (un precedente concorso su questo tema è stato deludente) mentre si trovano molto a loro agio con l'incubo. «Riesco a raccontare meglio in nero che in rosa - conferma Monica Vodarich -. Forse perché l'amore lo sento come una cosa più intima. Ci ho provato, qualche volta, quando ero follemente innamorata. Ma le parole che rivedevo sul computer mi sembravano inadeguate, convenzionali, una brutta imitazione di Harmony. Con la paura mi trovo bene, riesco a guardarla con oggettività, forse perché non ho mai avuto veramente paura di subire del male fisico». Eugenides le descrive con grande intensità: «Perché mi piace vedere davanti a me una pagina che ti sembra di poter mangiare, tanto è piena di vita e precisa e ricca di immagini che si ricompongono nella mente». Quattro o cinque ore di lavoro al giorno gli bastano, dice, per mantenere quella concentrazione: poi resta il tempo per la palestra «come tutti gli americani», o per andare al ristorante, come tutti i newyorchesi. Che cosa pensa della narrativa americana della sua generazione, tra i 30 e i 40 anni? «La gente non ne ha una grande opinione, perché non abbiamo nomi veramente importanti, ma io vedo molti buoni autori in giro, e molti buoni libri». Nessuno però, negli ultimi tempi, ha avuto l'onore di essere trattato come Jeff Eugenides: forse perché dietro la sua storia così morbosa, c'è la voglia di rappresentare simbolicamente un mondo che corre verso l'autodistruzione. E questa ossessione, dal narratore, riesce a farsi strada subdolamente nella coscienza del lettore. Livia Matterà Bruno Ven tavoli

Luoghi citati: America, Detroit, Ravenna, Stati Uniti