Felliniane visioni dello sfacelo
Milano. Una grande mostra antologica riscopre Sergio Vacchi Milano. Una grande mostra antologica riscopre Sergio Vacchi Felliniane visioni dello sfacelo ! La nostra storia in sogni, incubi, profezie MILANO LLA Permanente fino al 18 marzo una grande antologica del sessantottenne bolognese-romano Sergio Vacchi ci rivela innanzitutto il suo ruolo, profetico e visionario, di narratore e cantore epico e funereo del fango nazionale. Il ricco ed esauriente catalogo Fabbri è introdotto da una pagina di Testori del 1991 e da una lettera d'addio del pittore al critico «a me destinato» secondo la profezia di Francesco Arcangeli. Quella pagina di Testori - il suo Ritratto domina dall'alto, quasi demiurgo, il ciclo finale di Abramo ospitante anche, più volte, il nudo mostruoso di Francis Bacon con il pennello sanguinante - parla di «epico sfacelo» in senso cosmico. Mi sembra però indubbio che, già a partire dal ciclo del Concilio nei primi Anni 60, la grande, densa, sontuosa pittura di Vacchi sia intrisa e impastata di sogni e di simboli altrettanto soggettivi e' individuali quanto pertinenti al. mostruoso e grottesco della nostra storia collettiva degli ultimi decenni. Gli esegeti di Vacchi, il cui. immaginario riccamente composito e ambiguo ha equamente: sollecitato non solo i critici mai anche letterati come Volponi ei Siciliano, Parise e Gatto, Vigorelli e Moravia, Bevilacqua e: Garboli, hanno altre volte sot- tolineato la vocazione più cinematografica che teatrale delle sue inscenature e lo specifico rapporto con le immagini felliniane di una Roma grottesca, onirica ed esoterica ma anche svelata nella sua lutulenza quotidiana: Roma, appunto, e il Satyricon e l'ultima sequenza della Dolce vita. Barbara Rose, in un saggio in catalogo significativamente intitolato II teatro nell'arte, purtroppo tradito da incidenti di traduzione, si spinge fino ad evocare Biade Runner. L'artista, nella presentazione di questa mostra antologica, si è d'altronde orgogliosamente richiamato a quella che egli ritiene e dichiara una sua tradizione del Novecento, da de Chirico all'oggettività espressionista tedesca (l'amato Dix) e, al di là di questa, ad una più vasta tradizione del ritratto drammatizzato. Qui, fra parete iniziale e vetrine, Grùnewald si affianca a Morandi e a Dix, Virginia Woolf a Becket e Kafka; e lo sguardo allucinato del Giovane Picasso è il medesimo di Marcel Proust e di De Chirico e degli Autoritratti dell'autore: il quale in effetti è la «maschera» di tutti gli altri, così come gli altri sono «maschere» sue. E' indubbio che, oltre a quelli dei maestri che lui stesso ha messo in campo - consonanti o anche respinti ma necessari, come Morandi -, altri materiali del secolo sobbollono nel suo mondo magmatico, una sorta di pentolone delle streghe del Macbeth: dall'espressionismo surreale di Ernst al realismo esistenziale ante litteram del grande Francis Gruber, ancora in attesa di un risarcimento e riconoscimento critico ben superiore ai fragili specchi erotici di Balthus, anch'essi comunque presenti nell'ultimo Vacchi. Uno spirito fra critico e fantastico - espressione di una vocazione fallica a penetrare e ferire nelle viscere dell'umano, conscio e inconscio, vissuto nella storia e negli archetipi - e un amore grande e fiducioso nei confronti dei tesori della materia pittorica hanno guidato negli anni questi viaggi di recupe- ro nella memoria storica dell'arte e nelle sue radici, fino ai simboli decadenti di Gustavo Moreau. Ma tutti questi viaggi, queste immissioni e fusioni di materiale nel grande calderone dei nostri sporchi ultimi decenni hanno comunque una piena e alta cittadinanza in questa seconda metà del secolo, nel loro significato altrettanto quanto nella sontuosa e misteriosa invenzione linguistica. Sono passati attraverso il filtro di quella che è stata definita la fase «informale» fra la metà degli Anni 50 e, col trasferimento da Bologna a Roma, i colossali omaggisfide dei primi Anni 80 addirittura a Michelangelo, un Michelangelo imbastardito e impastato con Goya e Munch. Di fronte alla sconvolgente fallocrazia di queste immagini, che anticipano Moreni e imprimono un sigillo monumentale di carnalità epica ai micromondi di Wols, di Fautrier e soprattutto di Dubuffet, appare del tutto restrittiva la formula dell'informale. Il Vacchi di quegli anni è uno degli artisti italiani che lottano per infrangere i legacci francocentrici di quella formula senza cedere alle lusinghe delle sirene di New York: un europeo-nazionale che conosce Bacon e i Cobra, come Burri con i suoi materiali peculiari o come il Ruggeri degli omaggi-sfide a Caravaggio. Già agli inizi dei primi Anni 50 si precisa la vocazione contestativa a immagini dense e significanti, grandi e sceniche, omaggio e sfida fra di loro intricati: nel caso di Morandi e della generale tradizione della natura morta di radice cezanniana sono senza paragoni nel 1952, in mostra, i Grandi bicchieri neri e grigi, ironici e mostruosi. A distanza di 40 anni, lo stesso spirito, la stessa pittura sporca e potente dà forma allo stesso Vacchi come Ultimo viandante, gnomo e buffone che ripropone nel nostro secolo la grande tradizione del «portrait-charge» sulle pagine storiche dello «Charivari» e delle immagini di Daumier sul Ventre legislatif di Luigi Filippo. Questi tempi sporchi, brutti e cattivi ci inducono a riconsiderare, nel quadro italiano della seconda metà del secolo, la qualità e la ricchezza pittorica premonitrice di immagini nello stesso tempo troppo compromettenti per non essere emarginate anche nel contesto figurativo e coraggiosamente compromesse con la scena e lo schermo ben prima di analoghe esperienze neoespressioniste tedesche: intendo quelle di Francese, di Fieschi; e in primis di Vacchi. Marco Rosei ! Opera fantastica che ribolle come il pentolone delle streghe nel «Macheth» Sopra: «Autoritratto dell'ultimo gattopardo» (olio del 1989) e a fianco «Mia madre ed io» (olio del 1987), due opere in cui Sergio Vacchi sfoga la sua fantasia visionaria e profetica
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