SETTE VOCI D'EUROPA

SETTE VOCI D'EUROPA SETTE VOCI D'EUROPA II Grand Tour di Marcoaldi zione ognuno recitando se stesso è lo specchio dell'altro? I sette che Marcoaldi vuole stanare hanno qualcosa in comune oltre la vecchiaia: sono dei sopravvissuti. Non solo a due guerre mondiali, come, brillantemente, Jùnger; o all'esilio politico e esistenziale come Cioran o Canetti; o alla persecuzione dei nazisti e della memoria, come Edelman, il superstite della rivolta del Ghetto di Varsavia. Sono sopravvissuti, nel cerchio carcerario del pensiero, all'inizio di tutto e alla fine di tutto. Qualcuno è rimasto un gentleman all'apparenza affabile, non solo l'oxfordiano Isaiah Berlin, ma anche Jùnger che «cortese e glaciale» obbliga il perplesso visitatore a sedere sulla poltrona sulla quale, prima di lui, «si sono seduti Heinegger, Schmitt, Borges». Qualcuno si è stabilmente dissimulato dietro la superficie delle pagine dei suoi libri: in casa Canetti a Londra il campanello della porta d'ingresso è rotto dal '60 e il padrone di casa non si è mai preoccupato di farlo aggiustare. Qualcuno tace, qualcuno ascolta. Ma cosa vuole in definitiva da loro l'ospite indiscreto? Vuole rinfacciargli il loro pensiero, squadernarglielo davanti in tutto quello che, nella sua sstensione e nella sua potenza, non regge. E', direbbe Cioran, un esercizio di ammirazione. Implacabili detective del senso come Canetti o dell'arbitrio come Cioran, poco importa: gli uomini che ha davanti sono degli strateghi della consapevolezza e della responsabilità, l'unico eroismo che il secolo dei genocidi prima di finire può ancora permettersi di riconoscere. E' con loro, dunque, che bisogna fare i conti. Ad ogni incontro Marcoaldi cerca la voce unica, il tratto decisivo e formativo - il nesso che lega in Canetti l'orrore della morte all'orrore del potere, o la contraddizione che vincola Cioran all'utopia - mentre si sgrana il rosario delle parole chiave del secolo. Ma sembra che il fuoco dell'attrazione sia un altro: questi vecchi non hanno solo attraversato il pensiero del male, hanno attraversato il male stesso. Questo libro di poche parole e di tanti pensieri va consigliato, credo, non solo ai giovani, per i quali gli uomini qui rianimati rischiano paurosamente di diventare dei «classici del Novecento», ma anche ai rumorosi ammalati di immemore euforia che usano parole di cui si sta perdendo la storia e il significato non meno che ai catastrofici fin de siècle, che confondono il pessimismo con l'ignoranza. CHE cosa può aggiungere la voce, la viva voce della persona, a quanto uno scrittore o un filosofo, o uno storico delle idee abbiano già affidato all'ordine irreversibile dell'opera? Tanto più se si tratta di vecchi, di grandi vecchi il cui nome ha cominciato a risuonare all'inizio del secolo e ancora non ha smesso, cosa c'è ancora da dire o da ridire? In cosa differisce dalla parola della mente la parola pronunciata a un interlocutore? Credo che non a caso Franco Marcoaldi abbia intitolato il suo libro d'incontri con sette protagonisti del secolo Voci rubate (Einaudi, pp. 156, L. 20.000), anche se vi compaiono voci in realtà mai udite, come quella di Canetti, per così dire intraviste nello spazio ristretto di qualche frase, come quella di Bohumil Hrabal; quello che conta è il furto, la posizione del ladro che cerca qualcosa di nascosto, di occultato, o addirittura indebito. In altri termini, è la presenza dell'altro che rende anche il più corazzato dei pensieri - come quello di Ernst Jùnger - o il più sfuggente, per ironia o disperazione come quello di Cioran -, non tanto attaccabile (non è certo la polemica la musa dei veri incontri) quanto interminabilmente incompiuto, e dunque promettente, metamorficamente rivolto al futuro. Sono sette i vecchi che Marcoaldi ha incontrato in giro per l'Europa, oltre ai già citati Canetti, Hrabal, Jùnger e Cioran ci sono Isaiah Berlin, Marek Edelman e, unico non europeo, il messicano Octavio Paz. E' probabile che Marcoaldi, in qualità di reporter culturale di «Repubblica», li abbia cercati o incontrati una prima volta per una normale intervista. Ma, ogni cronista lo sa, una nonnaie intervista carica di frustrazione chi la conduce: non solo se l'interlocutore è evasivo, troppo narcisista o inguaribilmente insincero. No, è che una normale intervista presuppone un normale resoconto, domande e risposte che abbiano un capo e una coda. Quello che non quadra, le sfumature e le. diversioni, i lapsus e i silenzi, l'ombra del discorso insomma, deve restare fuori. Ma se, come nel caso di questi sette, si tratta delle forme del pensiero che il secolo si è da to per pensare spesso l'impensa bile, come è possibile che do mande e risposte abbiano un ca po e una coda? E dello stile, dello stile che è l'uomo, non bisogna forse dare testimonianza attra verso il proprio stile così come in un incontro o in una conversa- Elisabetta Rasy

Luoghi citati: Europa, Londra, Varsavia