Addio a Jarman regista coraggioso

L'autore di «Edoardo II», «Caravaggio» e «Wittgenstein», è morto di Aids a 52 anni L'autore di «Edoardo II», «Caravaggio» e «Wittgenstein», è morto di Aids a 52 anni Addio a Jarman, regista coraggioso Da qualche tempo rifiutava ogni ulteriore cura DEREK Jarman, il regista inglese più trasgressivo, geniale e irriducibile, è morto di Aids a cinquantadue anni: da sabato 5 febbraio quasi aveva perduto conoscenza e contatto col mondo, dopo aver rifiutato ogni ulteriore cura e aver rinunciato a lottare contro quella malattia che aveva contrastato con vitalità e serenità per sette anni. S'era abbandonato, arreso. «Avvicinati, morte, e il tuo tocco chiuda i miei occhi...» era l'invocazione nel suo bellissimo film «Edoardo II», premiato alla Mostra di Venezia nel 1991, storia della passione tra il re inglese ragazzo e il ragazzo suo amante, del complotto politico e sociale per eliminarli. «Felice d'abbandonare l'Inghilterra, ma guardandomi indietro con le lacrime agli occhi», era il sentimento con cui Jarman diceva che avrebbe lasciato la vita, lo stesso sentimento degli esuli allontanantisi dalla patria alla fine del suo film «The Last of England» (l'ultima Inghilterra, oppure quel che resta dell'Inghilterra). La sua morte è un dolore vero. Artista raro, che avrebbe voluto essere «Tarkovskij amalgamato a Pasolini» ed era invece meravigliosamente se stesso, Derek Jarman è stato un uomo intelligentissimo e caldo, di grande coraggio ed energia interiore, ricco d'entusiasmi e di talento per la vita, attivo, colmo d'affettuosità verso il mondo; gli piaceva fare, parlare, esistere, battersi per il rispetto dei diritti degli omosessuali e contro una cieca politica inglese. A Berlino in febbraio, nel 1988, nell'intervista più inattesa per la prima volta aveva parlato del suo essere sieropositivo, anche con spirito. Diceva: «Lo sapevo da due anni. Decidere di non farne un segreto è stato difficile, però ho capito che poteva essere importante o almeno utile discuterne apertamente. Me lo posso permettere, sono in una situazione di privilegio: quasi tutti i miei amici che si sono ammalati di Aids hanno perso il lavoro, alcuni sono disoccupati da quattro anni. Il silenzio contribuisce a nutrire l'intolleranza verso gli omosessuali e lo spirito omosessuale di neo-clandestinità». Aveva già allora programma¬ to per sé il futuro diverso che avrebbe poi vissuto. Nei Sessanta aveva studiato pittura alla Slade School di Londra, fatto mostre, vinto premi: quindi aveva ripreso il lavoro solitario della pittura con produttività febbrile, con urgenza. Aveva comprato una casa di pescatori «alla fine del mondo», in una terra desolata del SudOvest inglese, proprio accanto a una centrale nucleare: «Non certo un luogo di reclusione simbolico: è piuttosto nel mio appartamento di Charing Cross a Londra che mi sento imprigionato dagli altri, dal telefono, dal tempo sprecato». Poi s'era dedicato alla costruzione e coltivazione del suo anomalo giardino, raccontate nel film,«The Garden» e in parte nel bellissimo diario 1989-1990 «Modem Nature» pubblicato da Ubu Libri, in altra parte dedicato (come il film «Blue») alla malattia: le settimane passate in ospedale, i farmaci e gli stati fisici, le infinite complicazioni, le notti penose, il dolore moltiplicato dall'altro dolore delle notizie continue di morte degli amici. Di problemi collettivi, di politica, Jarman discuteva con la stessa franchezza e serenità usata per parlare dei problemi personali: colpiva il fatto che una visione lucida e nera delle cose d'Inghilterra e del mondo, e ripugnanze, insofferenze, odii molto sentiti, non gli dessero minimamente quell'aria tetra, quell'uggia senza speranza, quell'asprezza nichilista che caratterizzano a volte le persone ossessionate dalla degradazione della politica e del¬ la società. Critico, polemico, all'opposizione, Jarman non permetteva a nulla di renderlo infelice. Paziente, ridente, trasformava le idee in opere: il suo pacifismo sta a esempio in «War Requiem», visualizzazione dell'oratorio di Benjamin Britten con Laurence Olivier («l'uomo più charmant, più delizioso immaginabile»), che Jarman era stato l'ultimo a far recitare prima della morte. Amava l'Italia come l'infanzia, trascorsa in parte a Salò: «Mio padre era testimone militare al processo per il massacro delle Fosse Ardeatine. Ha visto impiccare la salma di Mussolini. Vivevamo in una enorme villa requisita sul lago, e a Roma in un appartamento dei Ciano, o al Danieli a Venezia, dove aveva sede il tribunale di guerra». In Italia, in Sardegna, aveva girato il suo primo lungometraggio, «Sebastiano), 1976, storia del soldato romano Sebastiano, cristiano che non cede al desiderio del suo comandante Severo e accusato d'insubordinazione subisce per questo il martirio, visione speciale di santità, festa di corpi e d'amori virili. In un'Italia particolare era ambientato il suo «Caravaggio», 1986, straordinaria biografia barocca, disperata e furente fitta d'anacronismi, dura, commovente. E' un dolore vero sapere adesso che non vedremo più suoi film, che non lo incontreremo più. Lo trovavi sempre circondato da gente (amici, amanti, critici, complici, colleghi, ammiratori, la sua attrice Tilda Swinton, l'amato Spencer Leigh): ragazze alte e sottili di suprema eleganza, trentenni aristocratiche pallide e bionde divenute lavoratrici pur di stargli vicino, ragazzi di pelle candida chiazzata, turbolenti, vestiti di nero. Derek Jarman portava sempre una T-shirt bianca, aveva spesso un bell'orologio strano. Teneva e toccava una mela, o un'arancia: bagliori di colore-Natura solari, di vita. Lietta Tornabuoni Era trasgressivo, geniale, irriducibile. Gli piaceva battersi per i diritti degli omosessuali la sociel'opposmettevfelice. sformapacifis«War Rne delBritten(«l'uomlizioso JarmarecitarAma