Le passioni di Tamara

Le passioni di Tamara A Villa Medici fascinosa retrospettiva della De Lempicka, artista «per puntiglio» Le passioni di Tamara Così si dipinge la morte di un amore n ROMA | suoi raffinati pennelli di I martora non conoscevano I sfumature. Lavoravano di MJ taglio, di fioretto. Laccando superfici glaciali. Solo una volta il suo sciabolante pennello mostra come un'esitazione, un titubare sfrontato, uno sgarbo da diva di Hollywood. La languida mano, linfatica, del consorte baltico Tadeus Lempicki, sfuggita alle cimiteriali pieghe del marmoreo cappottone, è come cancellata di furia, dissanguata sino a somigliare a una spoglia di guanto inanimato. E' la mano della vera, che non merita più di portare la «firma» della fede maritale: nello spazio di una tela si è consumato un amore, che rende perennemente incompiuto anche questo formidabile ritratto. Potrebbe essere la sigla della fascinosa retrospettiva che Villa Medici dedica, sino al 1° maggio, a Tamara de Lempicka, la bella polacca abituata a travasare la propria esistenza nella pittura («la mia vita è il mio lavoro», diceva). Era diventata artista per puntiglio: da bambina - ricca polacca che sfumava la propria nascita in una nube di leggenda (ogni dettaglio «scomparso dietro ai suoi quadri, quasi fossero paraventi nel camerino di una diva», come scrisse suggestivamente la figlia Kizette) aveva sofferto ore per posare di fronte a una pittrice di nome, che non la soddisfaceva. Non mi assomiglia, diceva: e benché non avesse pratica di colori o radirnenti di disegno, decise di «far meglio». Questo il vero motto di un artista di «carattere». A Pietroburgo s'innamora di Lempicki, fatuo come un verso di Puskin. Lo arrestano alla vigilia del '17 quale controrivoluzionario, lei rimane in Russia per salvarlo: pare la Fedora di Giordano, o una trama di Fassbinder. A Parigi decide che deve diventare celebre, ogni quadro venduto un braccialetto di diamanti, finché il niveo braccio, degno di Greta Garbo, non chieda venia, smettendo. Cocteau teme che l'alta società possa spegnere quel talento, ma si sbaglia: Tamara ha tempra d'acciaio. La prima opera gliela acquista il barone Kuffner, che attende un'intiera pinacoteca, prima di poterla sposare. Garantisce impassibile Kizette: «Aveva sempre dormito con le persone che dipingeva». Uomo o donna, non era un problema per lei. Soltanto a D'Annunzio, questo «orribile nano in uniforme», aveva saputo resistere: voleva ritrarlo per accrescere il proprio cachet mondano. Quello, sfatto di cocaina, vestito in pigiama da Zeus, pigolava respinto alla sua porta, come rivela il divertente diario della governante, pubblicato anni fa da Ricci. Moltiplicava bigliettini: il Vittoriale «è appeso ad un pelo del suo pube». Lei, Belle Dame sans merci contro cui s'infrangono i goffi tentativi del Vate, per ritemprarsi andava per chiese, a scoprire i Moretto da Brescia. Del resto, prima di giungere nell'infernale Mausoleo, gli aveva confidato: «Scolaretta senza gli abiti parigini (...) sono venuta a Firenze per purificarmi a contatto con la grande arte italiana, per studiare i cartoni del Pontormo». Non una nubile acida alla Forster, dunque, che si accon- tenta di qualche goccia d'acqua anti-isterica di Santa Maria Novella o palpita per la sindrome di Stendhal. Si studiava persino i cartoni del Pontormo perduto! E' dunque ora - e questa bella mostra dovrebbe finalmente certificarlo - d'ammettere che Tamara non è soltanto un fenomeno chic, una curiosità da salotto camp: è un'autentica artista. Dispiace trovare ancora, nell'elegante catalogo Leonardo, dove Maurizio Calvesi trama credibili intrecci culturali, le facili convenzionalità di Alessandra Borghese, che persegue a dire: «Una delle caratteristiche che più attrae del suo stile è l'alone di successo (...). I colori sono eccitanti, sexy, romantici». Basta, con il successo mondano! Si parli delle sue vere qualità pittoriche. Colori né sexy, né romantici, semmai «perversamente ingriste», come scrisse un suo esegeta. Perché Ingres ripeteva: «Il colore aggiunge decorazione alla pittura, ma non è che una dama di compagnia». Si accettino pure, invece, le non inutili chiccherie della messinscena: funzionano. Le didascalie luminose proiettate a terra come zerbini fantastici; i mazzi di calle, questi simbolici fiori carnosi che segnano il passaggio dalle cedevolezze liberty alle carrozzerie metalliche del déco; la vera Mercedes d'epoca, imcombente come nel suo autoritratto di Amazzone armata di cuffia e volante; la disposizione respirante dei quadri, sulle pareti di biscotto imburrato, amate da Balthus e simili a quelle della sua futuristeggiante casa di Rue Méchain, dove imbandiva le vernici delle sue mostre. Zampilli d'acqua, american bar, una verde luce subacquea sul talamo: architettata non a caso dal grande Mallet-Stevens. Lo scenografo di L'Inhumain: il film che significa Léger, L'Herbier, Lolhaud: un manifesto, quasi. Tamara - questa Eileen Grey della pittura - non sbaglia: sceglie tra i suoi maestri Maurice Denis, che ha fatto dello Stile un idolo, poi André Lhote, questa «sirène pédagogique», che le insegna a guardare con occhio scultoreo, deformato dalla passione, «sbarazzato dal grasso impuro dei raccordi». E' giusto partire da Lhote, dalle sue bagnanti striate di carnagioni gualcite come giornali spiegati al vento, le capigliature spiegazzate, come in un Derain più soffice e gentile. E' il cubismo «umanizzato»: quel passaggio che Severini (Tamara ben lo conosce, basterebbe la sua Donna blu con chitarra) intitola Dal Cubismo al classicismo: il purismo di Ozenfant e Le Corbusier, la Parigi di Kisling e del Rappel à l'ordre. All'inizio i suoi quadri si chiamano Réverbères, Ritmi, Prospettive. «Rime plastiche»: la forma più icastica dei soggetti. Un cubismo prismatico, contro-cerebrale, irrequieto, comune anche ai Duchamp, ai Villon, ai Délaunay: irradiazioni di fanali, città screziate di forme geometriche. Poi torna in lei la figura, possente, prigioniera della tela, littoriamente deformata: «Errori anatomici - predicava Lhote - che sono invenzioni sublimi dal punto di vista della costruzione». E Kizette, della madre: «Desiderava costruire, diventare migliore di se stessa». Lo Stile come maschera, costrizione, Bronzino del Novecento, al rumore di corazza d'un'Isotta Fraschini. In un bel saggio su Art Dossier Gioia Mori ricorda Gide: «Lo stile, sistema di subordinazione» (e peccato manchi in mostra ^agghiacciante» ritratto del letterato, dai «cinesi» occhi ciechi, «che non vogliono conoscere il Male»). Versate come dentro una rima. Le pupille si fanno di diaspro (giustamente Calvesi ricorda Wildt, scoperto alle Biennali: ma certamente ella avrà riflettuto anche su Casorati, Oppi, Tozzi, Broglio). Le arroventate membra saffiche, di ghiaccio, si affollano come incastri di pietre dure (come non ricordare Dopo l'orgia di Cagnaccio di San Pietro?); i panneggi di mussolina e l'incarnato dei divani si rapprendono di gesso, si pietrificano geologicamente, carezzati da un funebre vento bagnato, alla Isadora Duncan. Le mani stesse e i seni laccati hanno un rigor mortis da mutanti: quasi ti par d'auscultare lo scricchiolare ligneo degli snodi da manichino. Se li conoscevi riprodotti, ti sorprendi delle misure limitate di questi glaciali teatrini, che impaniano simili incatenati animali di lusso. Come la collegiale dal grembiule casto, che recita la finzione della fanciulla perseguitata di Sade: macchiata dalla lettera scarlatta di una polipesca fibbia in bachelite, gli zampini anchilosati nelle claustrofobiche scarpette autarchiche. E certamente la Lempicka pensava alle nicchie del Ghiberti, ai lunotti del Pontormo di Santa Felicita, o a Grotzius, ai manieristi di Haarlem, a Spranger, von Aachen: positure inquiete, compresse. Non tanto l'elegante Parmigianino, quanto i minori - glassati e freddi -, l'Allori, il Naldini, magari le carnagioni d'acqua dei preraffaelliti. Vecchia le tornerà, nella Madonne ronde, come un rigurgito d'incipit: il Tondo Doni di Michelangelo. L'obiettivo si stringe sui suoi Prigioni déco, la materia anatomica quasi si contrae, ne deborda, sbanda contro la cornice, come un insetto. Nel disegno preparatorio il Granduca Gabriele svetta a corpo intiero: nella tela - ritagliato - ci sirena quel suo rigurgito di ghigno nauseato, quel naturale bistro degli occhi di gemma, marinati nelle debosce e nello champagne. 0 le pupille lesse di affettata malizia delle comunicanti, che saprebbero provocare anche il vescovo più wildiano, con i sacri messali cotti come legumi e la complice colomba che solleva il velo al clic dell'orante pennello.E' interessante vedere che succede nei margini residui di sfondo: mareggiare di lampeggianti città newyorkesi, cubofuturistico jazzare di quinte e di formicolanti scatolini, affollati di vita. Non sarebbe stato più coraggioso, dopo il declinante periodo di quadri miserabilisti e pietistici, alla Schad, dopo le nature morte alla Sciltian e le calli alla O'Keeffe, mostrare anche il suo curioso periodo astratto-spatolato, del tutto sconosciuto? Marco Vallora La bella polacca travasava nelle tele la propria esistenza Tempra d'acciaio, sempre pronta a dormire con le persone che ritraeva: si negò soltanto a D'Annunzio, «orribile nano in uniforme» che la tempestava di bigliettini Qui a fianco un nudo realizzato da Tamara de Lempicka nel 1935. Nell'immagine grande «Ritratto di un giocatore di polo» del 1920: sono due fra le opere in mostra a Roma fino al 10 maggio

Luoghi citati: Brescia, Firenze, Haarlem, Hollywood, Parigi, Pietroburgo, Roma, Russia