I serbi lasciano Sarajevo arrivano i «fratelli» russi di Giuseppe Zaccaria

L'inviato di Ghali, Akashi: sono soddisfatto il ripiegamento è completo al 90 per cento Churckin: si sono ritirati al 150 per cento I serbi lasciano Sarajevo arrivano i «fratelli» russi NELLA CITTA' CHE TORNA A SPERARE SARAJEVO DAL NOSTRO INVIATO Quel signore con giubbetto antiproiettile azzurro e impermeabilino marrone non è Yasushi Akashi, il plenipotenziario delle Nazioni Unite? Ma sì, che è lui: con a fianco un'interprete deliziosa, tanto incerta appare nell'arrancarc sulla neve col suo completino «haute couture» giapponese, l'uomo che ha il dito sul grilletto della Nato sta per lasciare Sarajevo a bordo di un «executive» coi colori delle Nazioni Unite. Allora, signor Akashi: i serbi si sono ritirati in maniera soddisfacente, o no? Ha un attimo d'incertezza, il plenipotenziario, poi la cortesia orientale prevale sullo sconcerto: «Penso di potermi dire soddisfatto. Il ritiro è completato al novanta per cento, e credo che nel resto della giornata sarà pressoché totale». L'ordine di bombardare dunque non partirà da lei: o non è così? «L'ultimatum è tuttora in atto. Il punto non è questo. Si tratta di vedere se fino a questa sera non ci saranno più veri ostacoli a una soluzione pacifica». Il governo bosniaco è sempre più deluso: il presidente Izetbegovich parla come se volesse comunque il bombardamento... «No, Izetbegovich non chiede di bombardare in ogni caso. Piuttosto, è preoccupato per il permanere di posizioni serbe a ridosso della città». Allora che succederà stanotte, signor Akashi? «Io mi considero ottimista». Un leggero inchino, e l'uomo che in queste ore è la persona più famosa del mondo si avvia verso l'aereo. La caserma di Lucavica, in territorio serbo, dista pochi chilometri: un'eternità, a percorrerli su strade sconvolte dai cingoli e dal ghiaccio, punteggiate da «check points» bosniaci, serbi, francesi, ancora serbi. La caserma «Slobodan Princip», eroe della resistenza titina, tutto sembra tranne che un accampamento serbo. I viali sono invasi da bianchi blindati delle Nazioni Unite, nelle baracche le armi degli assediami ormai traboccano. All'interno, fra una pletora di ufficiali Onu, c'è un giovanotto nervosissimo, vestito esattamente come i ragazzi delle nostre periferie vorrebbero apparire. Il «capitano Drajenko» - altro nome di battaglia, fra i tanti - è un ufficiale delle truppe di élite serbe. Mastica chewing-gum, porta il basco rosso dei reparti speciali, un paio di Ray-Ban sapientemente piazzato fra i capelli e un note- vole «bomber», costosa replica del giubbetto di volo dei piloti inglesi di cinquant'anni fa. «Come va il nostro ritiro? Non so cosa possano chiederci ancora. Abbiamo portato via tutto quel che si poteva muovere: le armi che sono rimaste, a Grbavica, sono tutte sotto il controllo dell'Onu. A questo punto non so cosa possano volere ancora...». Pochi metri più in là c'è l'altro grande mediatore: Vitalj Churckin, l'uomo di Eltsin, ha arrancato nel gelo fino alla caserma di Lukavica per rassicurare ancora una volta i serbi, e ammonire l'Europa. O meglio, di ammonire forse non gli interessava molto, ma visto che ha dinanzi il cronista approfitta dell'occasione. «Akashi le ha detto che il ritiro è completato al novanta per cento? Io aggiungo che fare cifre del genere non ha senso: se si considerano la potenzialità di fuoco o le posizioni sul terreno, io potrei rispondere che la rinuncia serba a certe collocazioni corrisponde a un ritiro al centocinquanta per cento». Questo significa che un. bombardamento non avrebbe più senso? «Sicuramente no. Ed anzi, ogni iniziativa del genere urterebbe la coscienza del mondo, farebbe levare le grida di chi ha sinceramente a cuore le ragioni della pace. Mi si obietta che le trattative non sono concluse, che il ritiro non è perfetto. Rispondo che non esiste nulla di perfetto, al mondo, che momenti come questo vanno gestiti un passo dopo l'altro, con intelligenza e flessibilità». E' la giornata dei russi, questa. Dicevano che i quattrocento «para» inviati da Eltsin come garanti e scudi umani non ce l'avrebbero fatta a giungere prima dell'ultimatum. E invece ecco i primi dieci: sono arrivati a Lucavica l'altra notte, prima falange di liberatori. Una piccola unità specializzata in trasmissioni che adesso innalza un'antenna e su una carta geografica si fa spiegare dai «caschi blu» francesi i problemi del dislocamento. Il caporale Anatolj Shalimov (sì, come il calciatore) avrà vent'anni, non ha l'aria molto florida, ma per il momento seduto sul cofano della sua «Uaz» si gode un grande momento di popolarità. «Cosa penso di questa missione? Che potrebbe essere quella decisiva». L'eroica pattuglia ha anticipato di poche ore queir «arrivano i nostri» che per troppi giorni era stato rinviato. Un paio d'ore ancora, e sulle alture di Pale il convoglio russo concluderà la sua cauta marcia di avvicinamento fra serbi festanti e bambini sporti verso le fiancate dei camion, come a toccare le divise dei santi. Gli specialissimi inviati di Eltsin si piazzeranno proprio a Grbavica, dove gli ultimi tank e mortai serbi restano teoricamente in posizione. Teoricamente, per l'appunto. Bisognava trovarsi ieri nelle vaste pianure che circondano Sarajevo, o sui primi contrafforti delle colline, annaspando sul ghiaccio come papere fuori stagione per rendersi conto di quanto veloce, nei fatti, è il ripiegamento serbo, e quanto pretestuoso sarebbe in questo momento legare tutto all'inamovibilità di questa o quella carcassa blindata, questo o quel mortaio. Perfino Michael Rose, l'eroe delle Malvinas, il comandante delle forze Onu a Sarajevo, ieri ha voluto ricordare che i serbi vengono da due anni di sanzioni economiche: «Spesso, nello spostare i loro mezzi, hanno problemi anche per trovare la benzina». Tra fumosità delle Nazioni Unite, possibilismo della Nato, contrapporsi delle menzogne serbe e bosniache, a chi resta qui rimane solo da riferirvi un'impressione. Le armi pesanti che i serbi lasciano intorno Sarajevo, sotto il controllo delle Nazioni Unite (russo, francese o inglese, a questo punto conta poco) valgono grosso modo come quel che si abbandona in una stanza d'albergo quando uno raccoglie tutto e parte in fretta. Giuseppe Zaccaria L'inviato di Ghali, Akashi: sono soddisfatto il ripiegamento è completo al 90 per cento Churckin: si sono ritirati al 150 per cento Akashi, inviato di Ghali a Sarajevo e caschi blu russi festeggiati all'arrivo a Pale

Persone citate: Eltsin, Ghali, Michael Rose, Princip, Shalimov, Slobodan, Yasushi Akashi

Luoghi citati: Europa, Sarajevo