Sarajevo senza illusioni di Giuseppe Zaccaria

Sarajevo senza illusioni Sarajevo senza illusioni / bosniaci accusano: è tutto una finta NELLA CITTA' CHE SI LASCIA MORIRE SARAJEVO DAL NOSTRO INVIATO Pensate: il secondo millennio sta per finire e le sorti di Sarajevo, dei Balcani, forse d'Europa potrebbero dipendere dal Generale Inverno. Mancano appena ventiquattr'ore alla scadenza dell'ultimatum, voci dal mondo intero continuano a intonare un preludio all'Apocalisse, i serbi si ritirano sempre più velocemente, Radovan Karadzic, lo psichiatra pazzo, giura che entro oggi tutti i suoi cannoni «saranno molto lontani dalla città». Dice che «le condizioni meteorologiche al massimo potranno creare qualche difficoltà». E aggiunge: «Mi aspetto che i nostri avversari musulmani tentino di trarre vantaggio da questa situazione». Ecco perché tutto il mondo è qui, ghiacciato fra queste alture, ad osservare metro per metro i cingoli degli orribili blindati serbi che slittano e sbandano sulla neve. A seguire passo per passo l'avvicinamento dalla Slavonia di quattrocento «para» russi, segnalati un metro dopo l'altro neanche reincarnassero le falangi di Filippo il Macedone. A Pale li attendono con fanfare e bandiere, a Sarajevo con la livida sospensione di chi sente di aver perso ma sa che potrebbe perdere molto di più. E perderà, forse: poiché il lungo travaglio del governo degli assediati ieri ha prodotto una risoluzione che appare fra le peggiori. lori vi raccontavamo dello scontro a Sarajevo fra irriducibili o possibilisti: hanno vinto i primi. Qui era già tarda sera, e come al solito la situazione si delineava chiaramente incomprensibile, quando una conferenza stampa del «falco» Ganic, vicepresidente del governo dei cento giorni, ha acceso un'altra miccia sotto il barile di polvere. Ganic fa sapere che i bosniaci sono «delusi» per un accordo che consente ai serbi «non di ritirarsi, ma di dispiegare le loro forze intorno a nuovi obiettivi». I cannoni forse se ne vanno, ma saranno al più presto schierati in- torno a Tuzla o Goradze, «enclaves» musulmane che rispetto a Sarajevo hanno solo lo svantaggio di vivere assedi molto meno raccontati. E non basta: il presidente Izetbegovic ha spedito a Manfred Woerner, segretario generale della Nato, una lettera in cui afferma che secondo lo Stato bosniaco «la presenza dei Caschi Blu ha il solo scopo di impedire raids aerei». Insomma, secondo il governo musulmano questo circo feroce servirebbe solo a mascherare l'ennesima, grande truffa europea. Non basta: l'esercito bosniaco deve disporre di straordinari osservatori se è in grado di affermare non solo che gli ufficiali Onu «non dispongono di alcune cifre attendibili circa il ritiro degli assedianti» (cosa vera purtroppo, almeno fino a questo momento), ma che «fino ad oggi i serbi hanno lasciato sulle alture di Sarajevo un numero considerevole di armi pesanti». La questione è un'altra, però: quello che afferma Izetbegovic, è vero o no? E' esattamente a questo punto che anche un testimone da Sarajevo deve fermarsi: poiché non esiste dato, non cifra, non c'è prova che il ritiro serbo (per quanto effettuale, concreto, veloce) risulti in qualche modo soddisfacente. Il generale Rose continua a dichiararsi ottimista, come comandante delle forze Onu dice che i serbi stanno portando via «un numero conside¬ revole» di carri e 'annoni. Adombra anche, cautissimo, la possibilità che dinanzi all'impedimento atmosferico l'ultimatum della Nato possa subire uno slittamento di ventiquattr'ore. In effetti continua a nevicare, a Sarajevo. La neve ostacola il tardivo ripensamento di Karadzic e dei suoi «cetnicks», la tormenta e un curioso incrociarsi di messaggi e contrordini impediscono che i liberatori (meglio, gli scudi) russi giungano tempestivamente in città. Per il momento vi possiamo dire soltanto che da oggi quattro raggruppamenti francesi, tre inglesi ed uno ucraino, seguiranno per i Caschi blu la consegna delle armi negli otto punti che le trattative delle ultime ore hanno febbrilmente stabilito. Yasushi Akashi, l'inviato speciale del segretario generale dell'Onu, è nuovamente a Pale per tentare con Karadzic un'ultima messa a punto. Dal quartier generale dell'Unprofor fanno sapere che anche Vitalj Churkin, l'uomo di Eltsin, è tornato a Sarajevo per una nuova tornata di consultazioni. Il battaglione di specialisti inglesi, appena giunto in città, comincia a dispiegarsi sulle alture in quella che si prevede possa essere ima «zona d'interposizione» fra serbi e bosniaci. Gli apparati elettronici di controllo delle artiglierie sono già in funzione. Il resto appartiene alle fasi che preparano tutti i grandi appuntamenti con la storia. Oggi a Sarajevo le mense popolari saranno chiuse. Niente più pasti caldi: solo, per chi lo vorrà, una razione «extra» che pesa settecento grammi, non si sa bene di che. I voli dei «C 130» all'aeroporto risultano vietati a qualsiasi civile. Strana, questa penultima notte di Sarajevo. Fra chi giura che bombarderanno e chi no fioccano le scommesse: un modo per esorcizzare il fatto che è chiaro, così chiaro come ormai la decisione non dipenda da questo o quel cannone serbo, questo o quel «tank» dimenticato, quanto da una visione più forte delle altre sul futuro dei Balcani, e quello d'Europa. I rifugi sono tutti pronti: questo albergo ne ha perfino di antiatomici. Certo, è stra¬ no prepararsi al «D Day» mentre in sottofondo una musica sciropposa sembra girare intorno all'anima. Ecco, un altro dei dettagli che un giorno qualcuno sosterrà si sarebbero dovuti leggere. Esiste un'impercettibile variazione, nei mille modi in cui S /ajevo attende la tempesta. Da tre, forse quattro giorni R; dio BosniaErzegovina, emittente di Stato, ha cambiato programmi. Niente più «rock» europeo, e neanche Ramazzotti, o replicanti balcanici. Un pezzo d'Europa è qui, che osserva e attende, mentre gli altoparlanti diffondono a ogni ora del giorno e della sen: estenuate nenie arabe. Giuseppe Zaccaria