Foucault l'ultimo dono è la morte per Aids?

Foucault, l'ultimo dono è la morte per Aids? il caso. Arriva in Italia la biografia che pretende di scoprire una «invisibile verità» Foucault, l'ultimo dono è la morte per Aids? IMPIEGARE la propria vita a diventare ciò che si è significa anche dare alla morte un valore di compimento. Il modo in cui si muore rivelerebbe il senso del modo in cui si è vissuto. La morte come scelta, fatta dal soggetto, perché spieghi e illumini la vita. L'ipotesi è dell'americano James Miller. La espone in un lungo saggio di cui esce ora la traduzione italiana, La passione di Foucault (Longanesi), anticonvenzionale biografia del filosofo francese: una biografia in qualche modo avvocatesca, come di chi volesse difendere un imputato - che non è tale - facendo di lui un eroe, anzi il salvatore dell'umanità (portatore di rivelazione) che egli non aveva inteso essere. Una biografia che si occupa principalmente della morte di Foucault, perché se diversa fosse stata, niente o quasi significherebbero oggi, secondo Miller, le opere del filosofo. Un'ipotesi a suo modo suggestiva e anche ben dimostrata a partire dai testi del Morto. Peccato che James Miller, che è convinto di aver scoperto «l'invisibile verità» di Foucault andando lui solo oltre «il visibile segreto» correntemente analizzato (omosessualità e Aids), voglia fare poi dell'ipotesi una teoria generalizzabile. Ogni persona morirebbe, secondo questa teoria, coerentemente con la vita che ha condotto per decisione consapevole. In altri termini, chiunque abbia vissuto con coscienza delle proprie azioni dà pienezza e significato a quelle stesse morendo in un modo determinato che in un certo senso quindi preesisteva al compimento delle azioni. In una dichiarazione rilasciata da Foucault in un'intervista del 1982, due anni prima di morire, sta il clou dell'interpretazione di Miller: «Credo che il tipo di piacere che potrei considerare come il vero piacere sarebbe cosi profondo, così intenso e così travolgente che non potrei sopravvivergli spiegava Foucault -. Il piacere completo, totale (...), per me è legato alla morte». Affermazione derivante dalla vita intesa come ricerca incessante del piacere proibito, aggiunge Miller. E ci informa del fatto che Foucault considerava La maschera della morte rossa di Edgar Allan Poe esempio sublime di «orgia del suicidio». Nell'ultimo decennio della sua vita il filosofo frequentò con grande assiduità le saune di San Francisco, avendo scoperto in quella comunità gay e in particolare nelle pratiche S/M (sado-maso) enormi potenzialità conoscitive. Quando nell'autunno dell'83 era ormai seriamente malato, pur con la quasi certezza di avere l'Aids, Foucault tornò alle saune di San Francisco. «Accettò i nuovi rischi - scrive Miller - e prese ancora parte alle orge della tortura, fremette alle "most exquisite agonies", si annullò di propria volontà, demolì i limiti della coscienza lasciando che il dolore fisico reale si sciogliesse in piacere attraverso le alchimie dell'erotismo». Ma ecco che l'ipotesi sino a questo punto ancora generica si precisa in forma ben altrimenti chiara. Foucault avrebbe scelto sì la propria morte e in un certo senso con voluttà, ma avrebbe anche scelto di darla, quella stessa morte, di trasmetterla. Consapevolmente, proprio come una parte - la più importante - del suo sapere lasciato in eredità ai discepoli. La morte come valore concreto, consegnata in mano al discepolo per eccellenza, l'amante occasionale della sauna di San Francisco. L'ipotesi di James Miller si fa macabra. Sadomasochista per scelta filosofica, Foucault avrebbe deciso di morire non solo come suicida, ma anche come assassino per la stessa ragione. «Che fosse questa l'apoteosi da lui scelta deliberatamente, la singolare esperienza della "Passione"? Il "Nucleo lirico della sua vita", la chiave della sua "Personale posizione poetica" è svelato - come egli presumeva - dalla plausibilità del suo abbraccio con una mortale "malattia d'amore"?», si chiede Miller. Al di là dell'interpretazione, la macabra ipotesi è peraltro corroborata da affermazioni di Daniel Defert, amante per 23 anni di Foucault, molto irritato da quanto il giovane scrittore Hervé Guibert aveva dato a intendere nel suo primo romanzo (che sarebbe poi diventato trilogia) sulla propria fine da Aids, All'amico che non mi ha salvato la vita. In quel libro, Guibert, che era stato molto vicino a Foucault nell'ultimo periodo - e anche per questo Defert era mal disposto nei suoi confronti -, riferiva tutto ciò che il filosofo gli aveva rivelato di sé tenendogli la mano dal letto di morte in ospedale. Oltre all'appropriazione del «visibile segreto» (la morte per Aids) e alla sua violazione, a Defert non era piaciuta la maniera «insouciante» che Guibert aveva attribuito a Foucault nell'atteggiarsi rispetto alla malattia. E aveva dichiarato che il Maestro, al contrario, «prendeva l'Aids con grande serietà. Quando andò a San Francisco per l'ultima volta, lo considerava una "esperienzalimite"». In Storia della follia, Foucault aveva parlato della tormentata visione di Goya, delle crudeli fantasie erotiche di Sade e della folle glossolalia di Artaud come di esperienze che spaventano e sconcertano, dalle quali «si esce trasformati». A suo modo, egli cercò esperienze-limite che potessero trasformarlo. Spinse deliberatamente la sua mente e il suo corpo al limite della rottura, rischiando il sacrificio. «Il sacrificio stesso della vita» che nel 1969 aveva definito «un eclissarsi volontario che non deve essere rappresentato nei libri poiché si compie nell'esistenza stessa dello scrittore». «Eroe di statura nietzscheana che in equilibrio precario su una corda sospesa annuncia la tenue luce dell'alba indicando temerariamente la via di un pensiero futuro», dice Miller. Salvo poi, improvvisamente spaventato dall'enormità di quanto afferma, precipitare in un abisso opposto di ba- nalizzazione quasi a equilibrare lui, James Miller, gli eccessi del Maestro: «Ma forse egli era solo un folle come Don Chisciotte, un Gatto Felix filosofo, costretto a imparare le leggi di gravità a proprie spese». «La sua stessa morte - arriva a dire Miller - benché rivelatoria potrebbe essere vista come un semplice ritorno soprannaturale dell'offesa, un castigo che impedisce la fuga nella contronatura». Ma è chiaramente provocatorio. Infatti si autosmentisce citando subito dopo ampi stralci di un'intervista che Foucault aveva concesso nel 1978 a Duccio Trombadori, in cui sottolineava che molte perplessità dei lettori sul rapporto tra esperienza-limite e storia della verità potevano essere chiarite solo «riannodando i fili di alcuni episodi della sua vita». «Ciò che dico non ha alcun valore oggettivo», concludeva però Foucault con candore disarmante. Eppure Miller ne trae il supremo insegnamento, ne fa parabola. Al funerale di Foucault, il mattino del 29 giugno 1984, nel cortile affollatissimo dell'Hópital de la Salpètrière, Gilles Deleuze prese la parola con voce tremante, appena udibile. Salito su una piccola cassa, lesse un brano tratto dall'introduzione agli ultimi due volumi di Storia della sessualità, uno degli ultimi lavori di Foucault: «Ma che cosa è dunque la filosofia oggi - voglio dire l'attività filosofica - se non è lavoro critico del pensiero su te stesso?». E' forse la miglior conclusione, il possibile commento a La passione di Foucault, un libro accorato che dà inquietudine, ma è anche irritante là dove Miller alla fine fa una parziale marcia indietro: Foucault forse non fu assassino nel senso pieno dell'affermazione. Se non aveva la certezza della propria malattia, fatto plausibile nel 1983, forse Foucault prese solo il rischio di essere assassino. Una limitazione prudente che getta una lunga ombra d'inutilità sulle 440 pagine che precedono. Gabriella Bosco Un 'ipotesi macabra: sadomasochista per scelta intellettuale, avrebbe deciso di morire come suicida e come assassino Nelle comunità gay di San Francisco il filosofo a caccia di esperienze-limite ||| gg Nell'immagine grande Michel Foucault. A lato il marchese de Sade, a sinistra lo scrittore Hervé Guibert. In basso Edgar Allan Poe

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