Il silenzio del Lager

Il silenzio del Lager FOGLI m BLOC NOTES Il silenzio del Lager I L «Carmelo». E' un edificio tozzo e basso, proprio sul confine del campo di Auschwitz. Ai tempi dell'impero austroungarico (tutto, intorno a Cracovia, respira l'aria di Vienna) si chiamava il «vecchio teatro». I nazisti lo trasformarono fra il '40 e il '44 in un deposito di gas venefici, quelli che serviranno ad uccidere quasi due milioni di deportati, il novanta per cento c duali ebrei. Dopo la guerra tutto ciò che investiva la struttura dei campi di sterminio nazisti in Germania, in Polonia o altrove, fu «congelato», in base a precise convenzioni internazionali: nessuna modifica poteva essere apportata, nessun insediamento consentito. La mostruosità del genocidio doveva emergere in tutto il suo spettrale squallore, senza riadattamenti, infingimenti, mutilazioni o riverniciature. D caso del «Carmelo» scoppiò, con la sua carica di rottura dirompente sul riavvicinamento fra ebrei e cristiani appena avviato, fra il 1984 e il 1986. Si preparava il viaggio di Papa Giovanni Paolo II - arcivescovo di Cracovia - ai campi di Auschwitz (Wojtyla è nato a pochi chilometri dalla polacca Oswieczim, in tedesco Auschwitz, il «Golgota del mondo moderno», come egli stesso lo ha definito, figlio di un ufficiale austriaco, a Wadowice). Associazioni cattoliche polacche, talune non esenti da antiche vibrazioni di antisemitismo, si impegnarono in una serie di iniziative volte a solennizzare l'avvenimento. E in primis: l'insediamento di un convento nell'edificio abbandonato del «vecchio teatro», sul bordo del campo di morte e dell'immenso sterminato cimitero, ma non dentro i suoi limiti rigidi e prestabiliti. Una di quelle opinabili questioni di confine, in tutto e per tutto degna degli azzeccagarbugli. Convento, e convento di suore carmelitane. Ad Auschwitz aveva trovato la morte, fra i tanti, una coraggiosa suora carmelitana che si chiamava Edith Stein ed era di origine ebraica, convertita poi al cristianesimo. Doppia provocazione per il mondo ebraico internazionale (lo scandalo partì da Bruxelles): alzare la croce di Cristo su un cimitero composto in prevalenza, lo ripeto, di oltre il novanta per cento di ebrei, cioè di non cristiani e valorizzare l'approdo alla fede cattolica - attraverso la testimonianza della Stein come il naturale e quasi obbligato sbocco della dissidenza ebraica, nella secolare competizione, tutt'altro che placata (allora ed oggi), fra ebraismo e cristianesimo e in particolare fra ebraismo e cattolicesimo. Lo scontro fu senza esclusione di colpi. L'arcivescovo di Cracovia, il cardinale Macharski, successore di Papa Wojtyla, si schierò a favore dei cattolici polacchi promotori del «Carmelo» (nel frattempo le suore si erano insediate, alzando la loro bandiera). Si aprì una penosa disputa, che durò anni. I polacchi fermissimi nel sostenere che una larga parte degli ebrei sterminati nelle camere a gas era di nazionalità polacca: cittadini polacchi, prima che credenti nel verbo di Israele. E si aggiungeva il conto degli italiani uccisi, dei tedeschi uccisi, degli zingari uccisi, dei rappresentanti di tutte le patrie europee massacrati. Proprio quando scoccava il cinquantesimo anniversario dell'invasione nazista della Polonia, nel settembre 1989, il primate di Polonia, cardinale Glemp, si schierava a favore del partito del «Carmelo», con un'asprezza di linguaggio che risuscitava i più dolorosi ricordi di un antisemitismo con profonde e secolari radici cattoliche. La spada di Papa Giovanni Paolo II tagliò il nodo gordiano. Il Vaticano sentì che la vicenda, apparentemente periferica e marginale, del convento carmelitano incuneato nel campo di sterminio nazista, rischiava di creare una frattura irreparabile fra ebrei e cattolici. «E nessun luogo religioso, neanche una sinagoga»: dicevano gli ebrei, ansiosi di rispettare, secondo la loro tradizione religiosa, il silenzio dei cimiteri. Le suore furono allontanate; le suscettibilità e le proteste degli israeliti rispettate. I voti del congresso mondiale ebraico accolti. Il «vecchio teatro» estraniato dal campo e dalla storia. La sapienza vaticana arrivò a sottrarre alla dio¬ cesi di Cracovia sia Auschwitz sia Birkenau (il campo dello sterminio scientifico pianificato, sorto ex novo durante gli anni del delirio nazista su una estensione trenta volte superiore al vecchio campo, segnato ancora dalla sinistra e beffarda scritta ((Arbeit macht frei»: il lavoro rende liberi). Un particolare. Nel memorial di Birkenau, il grande monumento ideato da Pietro Cascella, ai bordi dei crematori e delle camere a gas, le lastre di marmo azzurro distribuite sul percorso sono mute: ogni scritta è stata cancellata. Le ricordo nel mio precedente viaggio ad Auschwitz nel 1987: contenevano, ognuna, il riferimento a una nazione europea, per la sua parte di vittime, in una contabilità globale per l'intera area di quattro milioni di morti: cifra che è poi risultata impropria. E Israele messo sullo stesso piano di paesi con quaranta o cinquantamila vittime. Ancora un'odiosa contabilità che è stata provvidenzialmente cancellata. La nuova diocesi, che comprende il più vasto e sinistro teatro della violenza antiebraica, è quella di Bielsko-Biala, quasi una frontiera della Slovacchia (una volta Cecoslovacchia). Incontro il vescovo Tadeusz Bakoczy, il 27 gennaio, in occasione del pellegrinaggio che i presidenti dei Parlamenti europei hanno compiuto ad Auschwitz nel 49° anniversario della liberazione ad opera dell'Armata rossa (ricordate le parole di Primo Levi: «Erano quattro giovani soldati a cavallo che procedevano guardinghi, con i mitragliatori imbracciati»?). Bakoczy ha studiato a Boma, conosce benissimo le vicende di casa nostra, si apre, con confidenza e cordialità, su quelle polacche. «Tutto è risolto, fra noi e gli ebrei: staremo attenti che il caseggiato, ora destinato a un centro studi antirazzista, non cada mai in mani che possano suonare offensive per gli israeliti». E il suo discorso, davanti all'immenso memorial di Birkenau, è commosso, breve ma teso, incisivo, mconfondibile nella sua ansia pastorale, nel rifiuto dei vecchi filoni di un cattolicesimo polacco diffidente, reazionario e misoneista. Le sue parole si conciliano benissimo con quelle di Simone Veil, il ministro francese degli Affari sociali, che ha trascorso tre anni della giovinezza in questi campi e li rievoca con parole discrete e sommesse. Gli steccati, almeno questa volta, sono abbattuti. I presidenti dei Parlamenti sottoscrivono una dichiarazione di lotta contro il razzismo. E non soltanto contro il razzismo storico, riaffiorante in Germania ed un po' in tutta Europa, ma anche contro la xenofobia, l'intolleranza, la discriminazione e la «pulizia etnica». Contro l'incitamento alla violenza estremista. Contro la tendenza a combattere gli immigrati, i rifugiati, insomma le minoranze e i diversi. Invocando un'autorità europea sovrannazionale, anche in tema di misure relative aU'immigrazione (il razzismo di Le Pen è nato di lì). Non firma la Francia; qualche esitazione da parte dell'Inghilterra e dell'Olanda. Il fronte anti-razzista è più solido in apparenza che nella realtà. Non a caso Simone Veil esorta a non banalizzare niente, a non disperdere l'eredità morale di Auschwitz di fronte a tante mistificazioni, a tante contaminazioni, a tante attenuanti. Cominciando da quelle delle cosiddette teorie negazioniste. Non a caso le autorità polacche hanno fatto molta fatica a impedire che il leader della destra russa con scoperti tratti antisemiti, Zhirinovskij, si mescolasse ai presidenti dei parlamentari dell'Europa comunitaria. Il tentativo è stato fatto, ma è stato immediatamente sventato. L'eco dei «pogrom» non è lontana. Bipenso alle parole di Primo Levi: «Per me e per molti altri superstiti "fortunati", il lager è stato un'università: ci ha insegnato a guardarci intorno e a misurare gli uomini». Ecco un criterio ancora infallibile, cinquantanni dopo. Giovanni Spadolini