Fbi e Kgb alleati: cancellate Picasso di Fabio Galvano

Fbi e Kgb alleati: cancellate Picasso il caso. I documenti segreti degli opposti ostracismi al pittore Fbi e Kgb alleati: cancellate Picasso LONDRA DAL NOSTRO CORRISPONDENTE Un apolide sballottato fra arte e politica, temuto dall'Occidente e sospettato dai signori del Cremlino. Quasi vittima della propria grandezza, Pablo Picasso cadde nei giochi misteriosi della guerra fredda. Numerosi documenti segreti dell'Fbi e del Kgb, portati solo ora alla luce, rivelane la vicenda di un uomo bandito dagli Usa perché considerato uno «sporco comunista»; e ugualmente bandito da un'Unione Sovietica sconvolta dalle psicosi staliniane, che ne ammirava la fede politica ma non poteva giustificarne le «follie» artistiche, inaccettabili nei rigidi canoni del «realismo socialista». Finì che Picasso non andò mai negli Stati Uniti né in Urss; e anche in Inghilterra, dove l'ostilità fu più misurata ma non meno esplicita, venne una volta sola. «Il dossier Picasso» è il titolo del programma che la Bbc manderà in onda domenica; e già, in una Londra culturalmente dominata dall'importante mostra del Picasso scultore alla Tate Gallery, il suo nome rimbalza come simbolo di mille intolleranze, di ardui confini tracciati per imbrigliare uno scomodo genio artistico. Nemici nei difficili equilibri del dopoguerra, Est e Ovest si scoprirono alleati di fronte a quell'uomo; e non è, nella storia della guerra fredda, una pagina edificante. Washington temeva un'infiltrazione artistica del babau comunista; e Mosca condannava come rivelano le carte del Kgb «un'anima di talento ma borghese», un bieco sovversivo della tavolozza, al punto di cancellarlo fino alla fine degli Anni Cinquanta. Trattato con sospetto a Ovest, Picasso era una «non persona» - come tanti altri personaggi scomodi - a Est. L'Fbi gli dichiarò guerra, rivelano i documenti, quando venne a conoscenza di un telegramma privato che Picasso aveva indirizzato a Edward Barsky, presidente del Jafrc, il Comitato unitario per i rifugiati antifascisti. «Gli americani affermava il compromettente messaggio - devono ribellarsi e schiacciare il crescente fascismo prima che sia troppo tardi. Combattete oggi o avrete domani una Guardia Civil americana». A nulla valse la fama artistica di Picasso: la minaccia politica, secondo il capo dcll'Fbi J. Edgar Hoover, era preminente. Un secondo messaggio al Jafrc, sottolinea il programma della Bbc, inchiodò la causa contro di lui. «I repubblicani spagnoli in Francia - diceva - esprimono la loro solidarietà con voi contro la legislazione fascista che reprime gli elementi progressisti degli Stati Uniti». Era, per Picasso, la condanna politica. Ma Hoover aveva altri motivi per sospettare dell'artista. La sua amicizia, per esempio, con Charlie Chaplin: anche lui un «pericoloso rivoluzionario», che avrebbe preferito l'esilio all'ignominia di quella «caccia alle streghe» culminata con McCarthy. Quando Picasso mandò un telegramma a Chaplin, nel 1947, per augurargli buon compleanno, l'Fbi lo intercettò. Sospetto, quel documento; e per ordine di Hoover fu mandato agli esperti di messaggi cifrati per essere decodificato. Quando Picasso chiese il visto per gli Stati Uniti, negli Anni Cinquanta, Hoover chiese consiglio. L'ambasciatore a Mosca gli rispose: «Dubito che una decisione, in qualsiasi senso, avrebbe un effetto rilevante». Il messaggio da Parigi fu: «Gli svantaggi di un rifiuto sarebbero superiori ai vantaggi, e ci sarebbe il sospetto che temiamo qualcosa». Ma il nocciolo era proprio quello: Hoover temeva Picasso. E il visto fu rifiutato. Più contorto, e non per questo meno dannante, l'atteggiamento dell'Unione Sovietica. Da quando Picasso si era iscritto al partito comunista francese, nel 1944, Mosca non aveva nascosto il desiderio di servirsene a fini propagandistici. Una pedina da «catturare con delicatezza e attenzione», precisa uno dei documenti del Kgb venuti alla luce. Ma come? La sua arte, infatti, era «ideologicamente inaccettabile». Erano gli anni di maggiore rigore del «realismo socialista», quell'insieme monolitico di canoni artistici entrato in vigore dopo lo scioglimento delle organizzazioni artistiche nel 1932 e destinato a dominare la pittura e la scultura sovietiche fino a Breznev. Poche delle epoche artistiche di Picasso - basti pensare al cubismo potevano convivere con una concezione artistica volta espressamente e unicamente a celebrare il realismo socialista, le ipotetiche ambizioni poi crollate con i sogni del comunismo. I suoi dipinti, tranne le opere giovanili, finivano così nei sotterranei dei musei moscoviti. E nonostante l'esplicito impegno politico e il suo riconoscimento come «voce» ufficiale nel mondo dell'arte - soprattutto dopo che dipinse nel 1951 «Il massacro in Corea» - Picasso fu bandito. Fino a dopo la morte di Stalin, e bene avanti in epoca krusceviana, continuò a non esistere. Molti dei suoi sostenitori finirono in carcere. Ma tutti, forse, avevano motivo di dubitare. A Est come a Ovest. Hélène Parmelin, stretta confidente di Picasso, afferma nel programma che l'artista si oppose coraggiosamente alla linea filomoscovita del pc francese dopo l'invasione ungherese del 1956. Ma lo scrittore James Lord afferma di avere litigato con Picasso, in quel periodo, proprio per il suo rifiuto di criticare l'atteggiamento oppressivo dell'Unione Sovietica. Joe Sullivan, ex agente speciale dell'Fbi, sostiene ancora oggi che Picasso era un rischio per la sicurezza americana. «Una vergognosa condanna della democrazia Usa», ribatte lo scrittore Victor Navasky. La realtà di quel Picasso è un puzzle. Un «coraggioso combattente politico», come lo definisce Gordon Shaffer, uno dei maggiori esponenti del movimento pacifista britannico? 0 una marionetta «manovrata» - peggio, «ingannata» - dal governo sovietico, come afferma il dissidente russo Andrej Sinjavskij? Forse nulla e forse tutto; perché, come rivela la sua compagna Francoise Gilot, in fondo Picasso si compiaceva di quel suo ruolo di «frutto proibito». E si divertiva. S'irritò molto, invece, in occasione della sua unica visita in Inghilterra. Fu un disastro; e i documenti emersi da Whitehall rivelano particolari finora sconosciuti. Ap¬ pena arrivato a Dover, Picasso fu a lungo bloccato in dogana, pare per ordine del primo ministro laborista Clement Attlee. Invisibili ombre, agenti dei servizi segreti lo seguirono da quel momento ad ogni passo, sulla via della Conferenza di Pace di Sheffield che Attlee voleva a tutti i costi sabotare. Preoccupato - come gli americani - che la conferenza dovesse servire per mascherare un «complotto comunista», Attlee impartì personalmente l'ordine di «tenere strettamente d'occhio tutti i partecipanti». Personaggi come il poeta Pablo Neruda, il cantante Paul Robeson e il compositore Dmitrij Shostakovich si videro addirittura negare il visto. Picasso, furente, rifiutò di visitare una mostra dei suoi lavori organizzata a Londra dall'Aris Council. Denunciò Gatteggiamento del governo britannico nei confronti della mia politica». E in Inghilterra non mise mai più piede. Anche lui aveva imparato il gioco della guerra fredda. Fabio Galvano Mai ammesso in Usa: «Uno sporco comunista» Mai ammesso in Urss: «Bieco artista borghese» t 1 I A sinistra: Pablo Picasso nel 1945 fotografato nella sua villa di Vallauris con tre dei suoi quattro figli t Sopra: Edgard G. Hoover 1 A destra: «Donna seduta», un'opera del '42 I