I serbi si arrendono a Eltsin di Giuseppe Zaccaria

Successo della mediazione di Churkin, 400 Caschi blu dell'ex Armata rossa nella capitale Successo della mediazione di Churkin, 400 Caschi blu dell'ex Armata rossa nella capitale I serbi si arrendono a Eltsin «Accettiamo ilpiano di Mosca, ci ritiriamo» SARAJEVO DAL NOSTRO INVIATO A volo radente sui grattacieli, i «jet» della Nato continuano a bombardare l'udito, i generali i serbi a minacciare bagni di sangue, i bosniaci a dire che potrebbero riprendere gli attacchi da un momento all'altro: che modo reboante, per preparare il nulla. Da ieri, l'assedio di Sarajevo è finito. I serbi si ritirano. A tre giorni dalla scadenza dell'ultimatum, mentre le volanti macchine da guerra d'Europa continuavano a inscenare sulla città prove generali dell'Apocalisse, Radovan Karadzic finalmente ha ceduto. Non alla Nato, formalmente, ma alla proposta che Boris Eltsin gli ha fatto giungere attraverso Vitalj Churkin, latore di una lettera che disegna per Sarajevo il futuro di una Berlino (o di una Cipro) dei Balcani, smilitarizzata eppure divisa per aree d'influenza. Non è ancora la pace, ma la più credibile fra le sue imitazioni che mai si sia affacciata in 22 mesi di sterminio. Fatti animo, Sarajevo, arrivano i liberatori. E pazienza, se rivestire questo ruolo toccherà ai maggiori alleati dei tuoi aguzzini. Bisogna attendere fino alla conclusione di una giornata terribile, perché dalle alture di Pale giunga la notizia che potrebbe dare un corso diverso alla storia: i serbi accettano la mediazione di Eltsin, per la prima volta Radovan Karadzic, presidente dei serbo-bosniaci e secondo il governo Usa primo nella lista dei criminali di guerra, annuncia che «intorno a Sarajevo la guerra è finita». Non è ancora del tutto chiaro come e con quali tempi si compirà il ritiro delle artiglierie: su questo (sembra grottesco rilevarlo, ma è vero) influiranno anche il gelo e la neve, che continuano a serrare la città più ancora dell'assedio. La svolta è comunque indiscutibile. Vitalj Churkin dopo aver svolto a Sarajevo la prima parte della sua missione, è andata a concluderla tra i «fratelli» serbi di Pale. Ad attenuare gli entusiasmi del mondo c'è un solo codicillo: per Karadzic, la guerra si è conclusa a Sarajevo, non certo nel resto della Bosnia. Primo corollario a quest'annuncio sarà l'arrivo nella città assediata (lo annunciano per le prossime ore) di quattrocento «caschi blu» russi fino a ieri dislocati in Slavonia. Considerata da qui, sul campo, dalla sterminata distesa di neve che attutisce i lamenti e ricopre le rovine, quest'avanzata significa più di qualsiasi trattativa segreta, racconta più di ogni comunicato. Per un'intera giornata politici, generali e ambasciatori continuavano a intrecciare attraverso il mondo una sorta di balletto dei Momix, in plastica e orrida alternanza di aperture e feroci minacce, mentre i fatti preparavano un clamoroso rientro della diplomazia russa sullo scenario internazionale. Qui, nella città che stava morendo, da oggi, domani al massimo i serbi di Karadzic si troveranno davanti, sulle trincee, intorno agli accampamenti, nei posti di raccolta delle armi, i loro amici di sempre. I soli, grandi amici che al mondo possano vantare, e coi quali la Chiesa ortodossa progetta una nuova unione dall'Adriatico agli Urali. Gente che parla la loro stessa lingua. Spesso, letteralmente. Qualche tempo fa, ci accadde di incontrare a Zagabria un sergente russo dei «caschi blu» che aveva perso una gamba su una mina. Era depresso, ovviamente: poco alla volta, però, aveva finito col raccontarci dell'aeroporto di Knis, in Slavonia, fra Qsjek e Vukovar, dove aveva prestato servizio. Delle sue strane esperienze. Dello stupore con cui, un giorno, si era sentito apostrofare da un reparto di «serbi» con lo sfottente e affettuoso: «Dove vai, durashok?». Stronzetto a lui, un sergente dei para? Solo qualche secondo dopo aveva realizzato che a lanciargli quell'insulto-richiamo non era stato un serbo, ma un russo come lui. Un reduce dell'Afghanistan. Un mercenario. A Knis, poco alla volta, fra i russi delle due parti si era stabilita una sorta di «repubblica» costruita su comunicazioni radio notturne, scambi di cortesie, avvertimenti tipo «attenti, fra mezz'ora raffiche dimostrative di fucileria». Adesso, le Nazioni Unite annunciano che 400 «caschi blu» russi arrivano finalmente a Sarajevo dalla zona Est della Slavonia. Dalle parti di Vukovar. Dalla «repubblica». I «caschi bliu» ucraini già stanziati a Sarajevo (quelli che dalla base di Mrindvor rivaleggiano con gli egiziani nel tenere in piedi il mercato della prostituzione) probabilmente li accoglieranno male, finora i due contingenti sono stati tenuti lontani per evitare complicazioni. Per i serbo-bosniaci, invece, sarà come veder giungere i fratelli maggiori. Appena tre giorni fa l'arrivo di questo battaglione era stato bloccato direttamente da Eltsin: adesso, il «via» all'operazione segna nei fatti l'inizio di una fase nuova. Quanto inutilmente rabbioso appare, solo poche ore dopo, il latrare del generale Manojlo Milovanonic, comandante in capo dell'esercito che resta acquattato sulle montagne: «Se la Nato ci bombarberà - aveva minacciato appena ieri mattina, da Belgrado - saremo costretti a prendere in ostaggio i soldati dell'Onu, il personale delle organizzazioni umanitarie e i giornalisti. Sarà un bagno di sangue, ma non potremo fare altrimenti». Negli ultimi cinquant'anni, solo Saddam Hussein era riuscito a spingersi sullo stesso terreno. Quanto patetica appare la risposta di Arif Basaric, viceministro bosniaco della Difesa: «Al punto in cui siamo giunti, o si firma la pace o si ricomincia. Le nostre fanterie potrebbero riprendere gli attacchi in qualsiasi momento, e liberare la sola Sarajevo». Fra le minacce che hanno continuato a incrociarsi per un giorno intero, il solo elemento serio era stato quello che il serbo Milovanovic aveva aggiunto alle sue sanguinolente anticipazioni: la Nato, diceva, può distruggere una piccola parte delle artiglierie serbe. Diciamo, dal dodici al diciotto per cento. Agli assedianti, ne sarebbero rimaste più che a sufficienza per riprendere a bombardare le fanterie bosniache, la città e l'albergo nel quale ci troviamo noi. Valutazione ragionevole, da qualsiasi parte la si considerasse. Qui intorno, in vista della scadenza di domenica notte era già incominciata una corsa al rifugio che aveva tutto il senso di una monetizzazione dell'emergenza. La città è disseminata di «shelters» progettati per resistere a un'atomica. Il generale Micheal Rose, prestante capo dell'Unprofor, per tutto il giorno aveva continuato a farsi seguire passo passo da «Sky Channel», il grande network inglese. Attraversava le vie deserte della città, distribuiva gli ultimi aiuti, e soprattutto ribadiva: «Sono ottimista, il nostro lavoro di mediazione coincide perfettamente con la politica della Nato». E' presto per dire se davvero andrà così. E' presto anche per immaginare le reazioni bosniache ad un accordo che promette di trasformare Sarajevo in una città eternamente «aperta». Al momento c'è una sola valutazione che appare già possibile, ed in qualche misura consolante: l'accordo di Pale entrerà a far parte della storia dei Balcani. Giuseppe Zaccaria Feriti serbi in un ospedale di Pale inneggiano al leader Milosevic (nella foto sullo sfondo) [foto ansa] Per II presidente Eltsin un importante successo diplomatico •HH