Il cinema si schiera per i condannati innocenti
22 «Nel nome del padre» accolto con entusiasmo Il cinema si schiera per i condannati innocenti BERLINO DAL NOSTRO INVIATO Un entusiasmo caldo quanto un -abbraccio, applausi, gratitudine anche per «Nel nome del padre» (In the Name of the Father) di Jim Sheridan con Daniel Day-Lewis, nuovo film sette volte candidato all'Oscar del regista irlandese del pluriOscar «Il mio piede sinistro». Del resto il pubblico dello Zoo-Palast, l'altra sera, ha accolto «Philadelphia» e Tom Hanks con una manifestazione d'ammirazione mai vista, duemila persone in piedi plaudenti, riconoscenti, anche piangenti: e se un trionfo simile toccherà pure a «Schindler's List» di Spielberg, bisognerà riflettere meglio sulla nuova predilezione degli spettatori intemazionali per il cinema-realtà e per i film a tesi, sulla fame di equità e verità che produce successo cinematografico; bisognerà cominciare a chiedersi se la tendenza appartenga alla cultura televisiva e sminuisca il cinema, oppure se nasca da bisogni sociali diversamente inappagati, dal sogno collettivo d'una giustizia vittoriosa. «Nel nome del padre» è un gran bel film, molto efficace, molto ben fatto, recitato benissimo da Daniel Day-Lewis, Pete Postlethwaite ed Emma Thompson, tratto dall'autobiografia di Gerry Conlon «Proved Innocent»; schierato (come «Philadelphia») dalla parte degli innocenti vittime d'ingiustizia, alla fine vincenti; originato da un fatto reale (come «Philadelphia», che racconta l'autentica storia e il processo dell'avvocato Clarence Cain). «Nessuna manipolazione. Siamo stati fedeli all'essenza della verità», dice il regista Jim Sheridan, polemizzando contro alcune accuse d'inesattezze rivoltegli in Inghilterra e giudicandole strumentali, intese a deviare l'atten¬ zione su dettagli piuttosto che sulla sostanza del film. Sostanza terribile. Nel 1974, in uno dei momenti più violenti della guerriglia irlandese in Inghilterra, dopo ventotto morti e centinaia di feriti provocati da esplosioni in due bar, dieci persone considerate sospette, nove irlandesi e una inglese, vennero arrestate a Londra. Due vennero indotti a forza di violenze e minacce a firmare una confessione. In un processo politico truccato (per sostenere la colpevolezza degli imputati, la polizia occultò prove e i periti mentirono), tutti vennero condannati, compresi due ragaz¬ zini e una donna anziana, dai 12 ai 30 anni di carcere. Neppure dopo l'arresto e la confessione dei veri autori degli attentati, combattenti dell'Ira, vennero liberati. Uno, malato, morì in prigione. In un secondo processo, la loro innocenza risultò chiarissima e furono assolti. Alcuni avevano ingiustamente scontato 15 anni di galera: «Le prigioni inglesi sono ancora piene di vittime di errori giudiziari, irlandesi, inglesi, neri, asiatici», dice Jim Sheridan. Sono cose che conosciamo: il caso Tortora, il caso Nana... «Nel nome del padre» analizza con molta intelligenza e passione, at¬ traverso l'episodio, il rapporto di dominazione e rivolta tra Inghilterra e Irlanda, visto in analogia e in parallelo con il rapporto padrefiglio tra due delle vittime d'iniquità: e gli armati dell'Ira non appaiono certo meno odiosi degli armati o dei poliziotti sopraffattori inglesi. Il regista irlandese dice di non essere pessimista, neppure rispetto alle attuali trattative di pacificazione tra i due Paesi: «Dobbiamo nutrire speranza. Con il film, abbiamo tentato di immaginare un futuro di vittoria della verità e della giustizia». Lietta Tomabuoni Il film Nel nome del padre è da domani in programmazione a Torino, cinema Ambrosio, a Roma, cinema Ariston, e a Milano. Daniel Day-Lewis nel film
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