L'ora di religione fa ancora paura, la donazione di organi anche

L'ora di religione fa ancora paura, la donazione di organi anche AL GIORNALE L'ora di religione fa ancora paura, la donazione di organi anche li neoconcordato che disastro Il ncoconcordato ha 10 anni. In un Paese come il nostro, in cui la «cultura del diverso» non ha mai messo completamente radice, i privilegi alla Chiesa cattolica hanno alimentato i naturali sospetti nei confronti di tutto quello che non è maggioranza, inducendo i più a pensare che il torto religioso sia sempre, per definizione, dalla parte dei meno. In sostanza, l'italiano medio nell'Italia concordataria, ragiona così: «Sono credente (cattolico); non praticante, ma non sono neppure protestante». L'ora di religione scolastica è un tipico esempio a riguardo. I non awalentisti sono in crescita, è vero; ma poiché il «no, grazie» deve essere espresso pubblicamente, prevale il retaggio di ritorsioni d'antica memoria nei confronti di coloro che rifiutavano la «religione di Stato», e le alternative sono destinate a rimanere la scelta dei meno: ostacolo alla realizzazione d'una scuola pubblica completamente laica, come dovrebbe essere. Là dove, invece, il rifiuto delle direttive clericali ha potuto esprimersi in segreto, all'epoca dei referendum su aborto e divorzio, alla Chiesa ccttolica gli italiani hanno voltato in maggioranza le spalle. Ma, ahimè, pur considerandosi ancora e sempre «buoni» cattolici. I privilegi alla Chiesa continueranno a costituire un freno alla maturazione delle coscienze, relativamente al compiere scelte di minoranza. Da questo punto di osservazione, dieci anni di neoconcordato non possono che chiudersi con un bilancio profondamente in rosso. Alberto Bertone, Moncalieri Più affetto meno menzogne Con riferimento alla lettera «Amare vuol dire...» apparsa il 6 febbraio sul quotidiano La Stampa a firma F. di Torino, avrei piacere di corrispondere con la persona suddetta. Il mio indirizzo è: Via Oriani 12 10149 Torino. Anch'io sto soffrendo per gli stessi motivi, in una società nella quale non mi riconosco, dove tutti si mentono spudoratamente in una affannosa corsa alla realizzazione sociale ed economica. Quando la cosa più importante per tutti, anche se non lo si vuole ammettere, è l'affetto dimostrato e la comprensione di chi ci vive accanto. Maria Cristina Giovanello Torino Basta ai viaggi della speranza Prendo spunto dalla notizia apparsa su La Stampa del 13 febbraio relativa alla decisione presa dalle autorità belghe di adottare criteri di selezione più restrittivi, nei confronti dei pazienti stranieri che si rivolgono ai centri belgi che praticano il trapianto di organi a scopo terapeutico. In Italia registriamo una media di 5 donatori di organi per milione di abitanti, contro una media europea di 20 donatori. E' quindi comprensibile l'affermazione fatta all'Ansa dal professor Yves Vanrenterghem di Bruxelles: «Se gli italiani non accettano che siano prelevati organi sui loro morti, allora devono anche farsi carico delle conseguenze». Vogliamo pensare per un istante però all'angoscia, al senso di vuoto, alla stanchezza di vivere del malato terminale, letteralmente sospeso tra vita e morte, in attesa del trapianto di cuore o di fegato, o del dìalizzato, che attende la chiamata dell'ospedale, nel leggere ora questa notizia? Ci vogliamo calare nei suoi panni? Oggi a Torino, alle Molinette, ci sono ottime équipe mediche in grado di praticare queste terapie. Ci sono le strutture per farlo. Ma una legislazione inadeguata. ed una insufficiente sensibilizzazione dell'opinione pubblica e di alcuni operatori sanitari, mantengono basse le donazioni di organi, ed obbligano ai «viaggi della speranza». Se gli altri Paesi ci negano l'accesso, è la morte, o una vita grama per i dializzati. Lo diciamo quindi ai parlamentari che usciranno dalle prossime elezioni, di interessarsi seriamente, perché moderne proposte di legge che collochino l'Italia alla pari con i restanti Paesi civili vengano discusse ed approvate, in modo che pure nel nostro Paese il prelievo degli organi a scopo di trapianto terapeutico risulti adeguato? Mi riferisco ad una legge che permetta ai medici di prelevare organi dai cadaveri senza autorizzazione, se il defunto non ha espresso in vita volontà contraria. Eviteremmo in tal modo i disagi dei «viaggi della speranza», e la conseguente emorragia di valuta da parte delle nostre povere finanze. E ancora chiedo a tutti di com¬ prendere che approfondire la conoscenza delle tematiche concernenti la donazione di organi è un dovere e non un optional, per cui le autorità preposte, così come gli organi di informazione, debbono farsi carico di illustrare all'opinione pubblica ed a quegli operatori sanitari che si mostrano indifferenti o recalcitranti, le ragioni e gli obblighi che ne derivano. Ho vissuto personalmente l'esperienza del trapianto di fegato, del viaggio della speranza all'estero, e della meravigliosa sensazione di nascere per la seconda volta, che ci pervade con il recupero pieno della salute. Permettetemi di esprimere a tutti quanti si trovano, o verranno a trovarsi, in condizioni di salute analoghe, l'augurio di vedere affrontate seriamente, e incamminate verso soluzione, le problematiche sopra illustrate. C. A. Maffeo, Revigliasco Torino Presidente dell'Associazione italiana trapiantati di fegato Lo Stato è uguale per tutti? La differenza che passa fra la mia città e Napoli (ma in genere si tratta di quasi tutte le città del Sud) è la stessa che in un incontro di boxe può esservi tra due contendenti, uno con le manette ai polsi, l'altro con le mani libere. Queste manette sono il rispetto di tutto quanto uno Stato elabora e cerca di applicare per potersi chiamare appunto Stato, mentre chi ha le mani libere non ha di questi gravami. Non mi curo di chi vincerà l'incontro, nemmeno voglio sapere chi sia furbo e chi sia fesso, disperato o beato. Mi interesserebbe invece sapere se l'arbitro è imparziale o cornuto, e come esso si possa sentire Stato in entrambe le città. E. Sarto, Genova Progressisti e leggende metropolitane Una nuova leggenda metropolitana sta diffondendosi tra i progressisti: la scarsa presenza di esponenti della società civile, del lavoro e delle professioni, tra i candidati del polo progressista sarebbe da imputarsi quasi esclusivamente alla indisponibilità degli intellettuali a candidarsi. Lo ha ripetuto anche Adornato nella intervista rilasciata ieri alla Stampa. E' opportuno allora fare chiarezza su alcuni punti. Primo, la lotta feroce sulla spartizione sia delle quote sia dei collegi «sicuri» tra i diversi gruppi entro il polo progressista ha reso chiaro fin dai primi giorni che la cosiddetta società civile avrebbe avuto spazio solo dopo che ciascun gruppo avesse ben piazzato la propria nomenclatura. Ad non si è distinta in nulla in questo, anzi. Forse l'unico errore delle persone invitate a candidarsi è stato quello di non accettare in massa, per il gusto di smascherare il gioco. Ma forse non lo hanno fat to per un estremo atto di lealtà, per non incrinare ulteriormente l'immagine di un ceto politico che si proclama «nuovo», quindi in diritto di rimanere, solo perché cambia etichette e casacche. Secondo, c'è in questa leggenda, così come nella scelta delle persone cui effettivamente è stata chiesta la disponibilità a candidarsi, una strana concezione della società civile: pressoché ridotta agli intellettuali, giornalisti e professori universitari. Ovvero, un gruppo sociale visibile e riconoscibile ai politici, ma non necessariamente agli elettori e alle elettrici, e soprattutto non necessariamente impegnato da cittadino nella società civile. In ogni caso il gruppo storicamente più omogeneo al ceto politico. Non si dice che la lobby dei professori universitari sia la più potente in Parlamento? Rifiutando di candidarsi gli intellettuali progressisti, più o meno esplicitamente, hanno fatto quel «passo indietro» che altri non hanno voluto fare. Chiara Saraceno

Persone citate: Adornato, Alberto Bertone, Chiara Saraceno, Maffeo, Maria Cristina, Sarto