Il segreto del poeta si nasconde in un rebus di Stefano Bartezzaghi

In un libro di Giampaolo Sasso i risultati della ricerca Migliaia di versi passati al filtro del calcolatore per scoprirne le parole misteriose Il segreto del poeta si nasconde in un rebus IH ANAGRAMMA è quel "gioco che ci fa trovare qualcosa di «immorale» in i un «memorial». «Immora LI le» ricombina le stesse lettere di «memorial» (e di «immolare», e di «lemmario») in sequenza diversa, e c'è chi trova curioso questo trucchetto. Altri vedono nell'anagramma non tanto l'aspetto di gioco quanto l'aspetto di comunicazione nascosta, l'enigma. Così per anagramma si intende anche quel fenomeno che stabilisce un legame occulto tra la «pargoletta (mano)» e il «melograno» di Carducci attraverso la sequenza «ARGOLE» (pARGOLEtta), che torna rovesciata in «ELOGRA» (mELOGRAno). Se da questa sorta di anagramma si deducono alcune conseguenze sul Pianto antico di Carducci, allora l'anagramma non è più un gioco ma diventa un indizio testuale: E' quello che sostiene Giampaolo Sasso, nel suo ultimo libro La mente intralinguistica, edito da Marietti. La ricerca di anagrammi in poesia non ha, propriamente, la nascita cabalistica che verrebbe spontaneo attribuirle. E' vero che fra i primi procedimenti talmudici c'è la Temurah, che consiste nell'anagrammare le parole della Torah alla ricerca di significazioni mistiche nascoste. E' vero che l'anagramma rimonta a certe etimologie di Platone («Era», dèa dell'aria, grazie all'anagramma «aer», aria) e all'interpretazione dei sogni di Artemidoro. Ed è vero che i cabalisti cristiani del Rinascimento hanno permutato le parole bibliche da prima che l'anagramma diventasse un gioco (e da ben prima che ci si inventasse una cosa chiamata «enigmistica»). Malgrado questi precedenti, però, quando si parla di anagramma in poesia ci si riferisce innanzitutto a Ferdinand de Saussure: non un cabalista, ma il fondatore della linguistica strutturale (e, almeno per alcuni, della linguistica scientifica tout court). Studiando il saturnio, un arcaico metro latino, a Saussure parve che ogni verso ripetesse i fonemi del verso precedente, con un complicato si- stema di duplicazioni, scorpori e riporti mai tanto esatti da dimostrare l'ipotesi, mai abbastanza inesatti da confutarla per sempre. In altri casi, i versi parevano contenere una parola-chiave, non scritta per esteso ma disseminata nelle parole del testo: per esempio il verso che ricorda la conquista della città di Taurasia da parte di Scipione Barbato, contiene il nome del conquistatore, Scipio («Taurasia Clisauna SamniO cePlt»). Saussure chiamò «anagrammi» e «ipogrammi» questi fenomeni, e li attribuì a una vera e propria regola metrica condivisa segretamente dai poeti antichi. Nessun testo però alludeva minimamente a fatti di questo tipo e perciò Saussure interpellò in merito il maggiore fra i poeti in lingua latina a lui contemporanei, Giovanni Pascoli. Il poeta rispose solo alla prima delle due lettere di Saussure, malgrado la deferenza assoluta del linguista («questa è la ragione per cui non ho potuto esitare a rivolgermi particolarmente a Lei, e che deve servirmi di giu¬ stificazione per la grandissima libertà che mi prendo»). Poi Pascoli tornò ai suoi «finch», «terit tirit» e «videvitt» (che gli guadagneranno la fama di eversore di codici linguistici) e Saussure abbandonò i suoi appunti sugli anagrammi. Riemersi dai fondi saussuriani nel 1964, tali appunti furono raccontati, selezionati e commentati dal critico Jean Starobinski, in un volume dal titolo geniale: Le parole sotto le parole. La conclusione di Starobinski attribuiva i fenomeni anagrammatici (che, inutile tergiversare, esistono) non al caso, né all'intenzione conscia del poeta. Parole-chiave e ricorrenze foniche affiorano dai versi come sintomi o simboli onirici, secondo non una regola ma una regolarità: l'autore ne è agito, e compito della critica è isolarli e spiegarli. Il filone fu approfondito su un piano strettamente linguistico da Roman Jakobson (che fra l'altro trovò nel testo di certi indovinelli russi la loro stessa soluzione, anagrammata). In altri casi i nipotini di Saussure furono meno modera¬ ti: Jean Baudrillard, per esempio, sostenne che nella poesia l'anagramma realizza una perfetta «sterminazione del senso» (ogni parola annulla la parola con cui fa rima, o anagramma, e ne è annullata). Anche in Italia, critici come Stefano Agosti, Gian Luigi Beccaria, Giorgio Orelli hanno approfondito il tema, a partire da casi proverbiali come il leopardiano «Silvia/salivi/, (anagramma perfetto fra la prima e l'ultima parola della strofa iniziale di A Silvia). Il dubbio fondamentale (che siano casi dovuti alla ricorrenza degli stessi suoni della lingua) permane. Una prima risposta è teorica. La poesia, secondo un luogo comune forse non infondato, è ciò che non si sarebbe potuto dire meglio, o che non si sarebbe potuto dire altrimenti. Per questo è intraducibile. Ma se non possiamo tradurre il senso in suoni appartenenti a lingue diverse, vuole dire che il rapporto fra espressione e contenuto è indis- solubile, e che l'orchestrazione sonora è il vero principio del testo (Verlaine: «De la musique avant tout chose». 0 no?). I fenomeni di ripetizione (rime, allitterazioni e anche anagrammi) sono elementi del pentagramma poetico, stabiliscono centri tonali e timbri di sfondo. Sul piano pratico, invece, il nuovo libro di Sasso riesce a rendere scientifica la rilevazione attraverso un programma informatico che riconosce tutti gli anagrammi di una data poesia: ossia, tutte le sequenze consecutive che ritornano ricombinate nel testo. Con il computer, Sasso può ricostruire interi flussi anagrammatici che percorrono i testi poetici, si accalcano soprattutto in posizioni cruciali (a fine verso, nel primo verso e nell'ultimo), arrivano a decidere quasi da sé varianti e lezioni alternative, e riproducono meccanismi che fin dal titolo il libro sostiene siano i nostri stessi meccanismi mentali. . L'analisi statistica, inoltre, mostra che la frequenza degli anagrammi, in poesia, è significativa. Resta la questione del senso: la sequenza «ARGOLE» che lega la «pargoletta» al «melograno» ha senso o non lo ha? E' una regola? Un regalo? E il mottetto montaliano Perché tardi contiene davvero un'allusione cifrata («perché t'ardi») alla combustione della «torcia», del «fumo» e della «folgore» di cui parla il testo? E nei «trasalimenti» di un altro mottetto (Mia vita), la sequenza «alimenti» è davvero un richiamo alla vita che procede, e si oppone alla morte? Ma forse, a una poesia, il senso non è necessario averlo né sterminarlo. Le coreografie alfabetiche degli anagrammi, gli inseguimenti dei caratteri tipografici, i flussi e i riflussi hanno il senso mobile e assoluto della danza: «De la musique encore et toujours». E' così che gli anagrammi rischiano di costituire la nuova frontiera dell'ineffabile poetico. «Et tout le reste est litérature». Stefano Bartezzaghi In un libro di Giampaolo Sasso i risultati della ricerca Così per Carducci la pargoletta mano divenne melograno in «Pianto antico»

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