Cinema con licenza storica? di Mario Ciriello

«Un bel film, ma altera la realtà» il caso. Applausi e polemiche a Londra per «Nel nome del padre» Cinema con licenza storica? «Un bel film, ma altera la realtà» LONDRA E' la «licenza poetica», tutti Io sanno e tutti l'accettano. Ma come reagire alla «licenza storica»? E' tollerabile, giustificabile? Ecco il dibattito che agita adesso l'Inghilterra, un battagliare di opinioni contrarie, un ribollire di diatribe sui giornali, alla tv, quasi ovunque, tra amici, nelle famiglie. Il casus belli? Un film, In the nome ofthe Father {Nel nome del padre), un film importante, bello e possente, candidato a ben 7 degli Oscar che saranno assegnati il 21 marzo a Hollywood. Lo supera, con 12 candidature, soltanto Schindler's list di Steven Spielberg. Gareggiano entrambi per l'Oscar supremo, quello per il miglior film, insieme con II fuggitivo, Lezioni di piano e Quél che resta del giorno. Artisticamente il film merita tutti gli applausi e tutti gli allori, il consenso è universale. Negli Stati Uniti Nel nome del padre già attrae da alcune settimane schiere di spettatori: e un redditizio successo sembra garantito pure in quest'isola, dove il film è appena giunto sugli schermi. La regia dell'irlandese Jim Sheridan non riceve che elogi e una pioggia di lodi avvolge le due star, Emma Thompson e Daniel Day-Lewis. Un'opera pregevole, dunque: ma che, proprio perché tale, esaspera e indigna la maggioranza dei critici. Si domanda: che bisogno aveva mai questo bellissimo film di prendersi così tante libertà con la storia? Che, in questo caso, è la verità. Una verità tremenda, la storia di Gerry Conlon, uno dei Guildford Four. Nel 1974, durante una feroce offensiva terroristica dell'Ira sul suolo inglese, una bomba esplose in un'affollatissimo pub al Guildford, a Sud di Londra. Quattro morti e 64 feriti. Era una bomba dell'Ira, ma la polizia non tentò di individuare i veri colpevoli, arrestò invece quattro irlandesi, tre uomini e una donna, sospettati di contatti con l'Ira, e li accusò dell'atroce crimine. Lo stesso anno, un tribu- naie, inconsapevole che la polizia aveva falsato alcune prove e ne aveva omesse altre, condannava i Guildford Four all'ergastolo. Soltanto nell'89, dopo 15 anni di carcere, dopo una tenace e coraggiosa campagna di illustri cittadini convinti della loro innocenza, una corte d'appello riconobbe l'inammissibilaà delle accuse e ridiede la libertà a Gerry Conlon e ai suoi tre compagni. E' un dramma, un thriller, cui la fantasia non può aggiungere nulla: e invece il regista Sheridan e lo sceneggiatore Terry George di Belfast non hanno resistito alla tentazione di «ritoccare» qua e là i fatti. «Abbiamo dovuto comprimere certi eventi per motivi artistici - spiegano -; tuttavia il film è una cronaca fedele del caso dei Guildford Four». Non è vero, replicano critici e storici, che pure ammirano l'opera. Quegli «adjustments» menzionati da Sheridan privano il film del diritto di presentarsi come History, lo inseri¬ scono nella categoria «faction», l'arguto termine con cui, qui e in America, si descrivono i figli mulatti del «fact» e della «fiction». Come uno di quei documentari per la tv o quelle story per i giornali, in cui la verità è pepata o gasata. Peccato, perché gli «adjustments» non sono trasgressioni né grosse né grossolane, sono dettate più che altro da considerazioni commerciali (il film, e questo è uno dei suoi molti meriti, riesce a condannare la giustizia britannica senza divenire mai prò Ira). Certo, nessuno s'è preso forse più libertà storiche di William Shakespeare, ma pochi conoscevano allora i fatti. Oggi la verità è accessibile e spesso nota: eppure registi, sceneggiatori e produttori si lasciano sedurre tuttora con eccessiva leggerezza dalla strada della «faction». In un saggio sull'argomento Peter Millar ricorda i recenti esempi di JFK, il film di Oliver Stone su Kennedy, nonché il film Hoffa, sul sindacalista-gangster americano. E alle poche «faction» serie, rispettabili, si accodano frotte di «ricostruzioni storiche», di delitti o di vite famose, create solo per far quattrini. Purtroppo, con il suo impatto potente e universale, il cinema ricordano vari studiosi - è oggi l'arte che lascia le immagini più profonde e più durature. C'è un caso, ormai classico. Quando Peter Shaffer presentò il suo dramma teatrale Amadeus il successo fu brillante, ma pochi presero sul serio la sua fondatezza storica: quando però la commedia fu trasformata in uno splendido film, traboccante di musica, la sua «tesi» divenne ufficiale e irresistibile. E così migliaia di persone nel mondo sono ora convinte che un Salieri gelosissimo contribuì attivamente alla morte di Mozart. Come Shakespeare e l'interpretazione di Laurence Olivier fecero di Riccardo III un demone mo¬ struoso, così Amadevs ha distrutto per sempre Salieri. C'è chi soffre alla vista di troppa «licenza storica» nel cinema. Mentre Hollywood sembra accingersi a premiare con una cornucopia di Oscar Schindler's list, mentre quest'opera, incentrata sullo sterminio degli ebrei, ha cominciato il suo viaggio trionfale sugli schermi di tutto il mondo, una voce disperata pronuncia parole di condanna. E' la voce del francese Claude Lanzmann, l'artefice di Shoa, l'insuperato capolavoro sull'Olocausto. Lanzmann, che è un ammiratore di Spielberg, deplora questa sua fatica. E scrive: «La storia di Schindler è narrata come fosse un'avventura. Spielberg, sono certo, è convinto di aver rispettato la verità storica, ma sbaglia. Anche se mostra i tedeschi che ammazzano gli ebrei nel ghetto di Cracovia, il quadro generale è falso». Mario Ciriello // regista Sheridan: «Semplici aggiustamenti». Anche Spielberg sotto tiro per «Schindler's list» A fianco e sotto due scene del film di Jim Sheridan «Nel nome del padre» che narra un episodio di terrorismo realmente avvenuto in Inghilerra 20 anni fa. In alto un'immagine di scontri in Irlanda

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