Carnevale senza trucchi di Ernesto Gagliano

Venezia vista da Roiter Venezia vista da Roiter Carnevale senza trucchi Fulvio Roiter ~w] VENEZIA I L Carnevale di Venezia? I «Mai viste tante macchine I fotografiche per metro j| I quadrato in piazza San Marco». Lo dice Fulvio Roiter, quarant'anni spesi in frenetica attività con l'obiettivo, eterno innamorato lagunare, ora autore di un libro di immagini (Che la festa cominci, Electa) dove trionfano colori e ambiguità delle maschere veneziane. Ma non c'è il rischio che Venezia, data in pasto alle folle con l'autofocus, diventi una banale cartolina? Basta con i tramonti sulla laguna, le gondole che si specchiano, i ponti dove sospirano turisti giapponesi. Roiter ha un gesto di stizza e guarda il cielo oltre la finestra della sua casa al Lido: «Sa perché mi piace stare qui? Perché ho bisogno della natura. Non sono veneziano, sono veneto: per scoprire Venezia bisogna viverci. E' un amore viscerale. Guardo questa scenografia: ogni volta è uno stimolo nuovo». Nelle maschere c'è un volto finto e uno reale: fascino del mistero? «Sì, ma guardi che un cretino lo si vede anche attraverso la maschera, da come si muove. E' poi è facilissimo fare dei primi piani, la sfida sta nel prendere le distanze, cogliere l'architettura, il fantastico contenitore». Sfide Roiter ne affronta da sempre. Tra le sue opere spiccano il fotolibro Essere Venezia (600 mila copie vendute) e Visibilia, un'antologia che raccoglie immagini scattate in giro per il mondo, dal Brasile alla Birmania, dal Messico alla Costa d'Avorio. Momenti intensi fìssati con il rigore della semplicità. Il destino di Roiter è segnato da un platano con la corteccia bianca, quasi calcinata, potato fino a sembrare una croce. Lo nota un giorno di marzo del 1949 mentre va in bicicletta da Meolo, il suo paese, verso il Piave. Ne rimane impressionato. Corre a prendere la vecchia Tenax a soffietto e fissa quella forma scheletrica contro un cielo grigio. L'immagine viene scelta per ima mostra europea a Brera, pubblicata in catalogo, elogiata. «Capii che quella era la mia vocazione». Poi appaiono i primi fotolibri (la Sicilia, l'Umbria di San Francesco, Venezia «à fleur d'eau») pubblicati da un grande editore di Losanna. Il ragazzo di campagna acquista notorietà, spazia nel bianco e nero («E' la vera misura di un fotografo, come una fuga di Bach»), scopre il colore. Moravia ha scritto che le sue foto più riuscite ci «danno ciò che è», inducono a fantasticare sul mistero del mondo. E lui? «In certi momenti, grazie alla luce e alla disposizione interiore, riusciamo a cogliere frammenti della realtà che hanno risvolti fantastici. Senza trucchi di laboratorio. E' come un prolungamento dell'occhio normale: fa parte del visito, del creatore». La parola «visivo», invece di «fotografo», ricorre spesso nelle conversazioni con Roiter. «E' questo l'aspetto magico della fotografia. Non so se sia arte, ma so che è il linguaggio del nostro tempo. Anche un analfabeta lo legge. Un avvenimento, una realtà esiste in quanto esiste l'immagine». Freniamo l'impennata: qualcuno lo accusa di estetismo, di staticità formale. Ribatte: «E' un discorso gratuito. La forma è indispensabile, non posso in una foto mettere dentro tutto. Nelle mie immagini non voglio che ci sia qualcosa in più, né qualcosa in meno. L'essenzialità è d'obbligo, è anche una forma di umiltà». Roiter si accalora, se la prende con chi vorrebbe fare un prontuario delle cose da fotografare e no. «A volte basta un filo d'erba, non c'è bisogno del viso di un bambino che piange. Io sono contro la retorica del sociale». Ha scritto che non ha nulla da insegnare a nessuno: è proprio vero? «L'alta tecnologia della macchina fa da sola il 90 per cento, fa quasi tutto. E' un lessico facile da imparare. Per il resto occorre occhio, cervello, sensibilità: come insegnare queste cose? Uno senza idee può avere in mano lo strumento più versatile, ma non vede niente». Le immagini del lebbrosario di Marituba, incluse in «Visibilia», sono frammenti di un reportage sul dolore? Roiter ha un'espressione di fastidio. «Non mi va chi mercifica il dolore. Non mi vanno quelli che si fanno passare per grandi fotografi perché per primi hanno scattato negli ospedali psichiatrici. E' una forma di violenza, il soggetto non può ribellarsi. E poi è facile: l'ambiente è spoglio, i malati sono vestiti con casacche strane. Se dò una macchina con autofocus a un bambino di dieci anni, e lui gironzola in quelle stanze, sono sicuro che a sera, sviluppando, trovo immagini sbalorditive. Non ci vuole nessuna inventiva. E così negli ospizi dei vecchi: un collega ha fotografato due novantenni nel cesso con il culo per aria! Capisco la denuncia, però bisogna farla con grande rispetto per il dolore. Il lebbrosario è stoto per me una sfida: volevo rappresentare quel dramma senza aggredire. Non si può fare violenza con la fotografia». Dice che il grande pericolo è di assuefarsi alla volgarità. Mapplethorpe? «Un grande fotografo, ma il sesso dei neri colto da vicino non c'entra niente con il fattore creativo. Erano sue frustrazioni personali». Toscani e la pubblicità? «Ha raggiunto il suo scopo: di far parlare, bene o male. Ma l'insistere su immagini drammatiche può diventare un boomerang, provocare rigetto». Helmut Newton? «In lui c'è sesso, erotismo, ma anche ironia. Il che salva qualsiasi artista». Le scene che non vorrebbe mai rappresentare? «La strage al mercato di Sarajevo e le sofferenze dei bambini bosniaci». Roiter non è attratto, come i fotoreporter, dal lampo dell'avvenimento. «Io sono contro l'avvenimento. Sono per il quotidiano. Lì c'è la scrittura giusta». E insegue un volo di gabbiani, sull'acqua grigia, oltre le piante. Ernesto Gagliano Una foto di Fulvio Roiter dal volume «Che la festa cominci», Electa