I serbi consegnano i cannoni ai caschi blu di Giuseppe Zaccaria

I serbi consegnano i cannoni ai caschi blu I serbi consegnano i cannoni ai caschi blu Via al disarmo, resiste il miracolo della tregua NELLA CITTA' CHE SI LASCIA MORIRE SARAJEVO DAL NOSTRO INVIATO^ Non arretrano dinanzi alla Nato, ma cominciano a consegnare i cannoni all'Onu. Agitano spettri di una guerra totale, ma qualcuno dei loro trattori scende sferragliando le colline per consegnare ai caschi blu mortai, armi leggere, ed anche qualche più importante bocca da fuoco. Poche cose, ancora: tredici «pezzi» importanti (7 cannoni, 4 mortai, 2 lanciarazzi). «E' solo il primo passo, costato oro di trattative. Ma è un primo passo buono e significativo», commenta il tenente colonnello Richard Pernod, responsabile dell'operazione. Ma intorno alla caserma di Lukavica, dalle parti dell'aeroporto, a Sud Est della città, in piena zona serbobosniaca, da ieri gli assedianti si stanno esibendo nel primo gesto di buona volontà dei ventidue mesi di assedio. Piccolo, eppure molto concreto. Negli stessi momenti i bosniaci consegnano all'Onu altre armi, perlopiù leggere, nella caserma che un tempo Sarajevo aveva intitolato a Tito. Non v'ò dubbio sul fatto che il generalo Michael Rose stia conducendo più o meno riservatamente, sul campo, quelle trattative che a Ginevra paiono impossibili. Come non dichiararsi speranzosi, adesso, dinanzi all'improvvisa «genti lhommerie» dei comandanti serbi e alla rinascita della città, che finalmente respira? Come non sottolineare la fretta con cui tutti, Rose in testa, hanno liquidato il bombardamento dell'altra notte («Scambio di colpi fra rinnegati, che non influisce sul cessate il fuoco»)? E come non chiedersi come finirà fra otto giorni? Dopo le ultime mosse, è molto probabile che alla scadenza dell'ultimatum le artiglierie di Karadzdic non saranno arretrate di 20 chilometri (come da ultimatum Nato) eppure in parte saranno state consegnate ai caschi blu di Lukavica (come da accordi locali con l'Onu). Chi, a quel punto, potrebbe ordinare un attacco? Seduto nel suo blindato bianco, Philippe Pousset, 31 anni, capitano dei fanti di marina francesi, dev'essersi posto tutte queste domande ma dice che «le risposte spettano ad altri». Per il momento, a lui e ai suoi uomini spetta di presidiare il ponte di Bratstva, uno dei sei luoghi «occupati» l'altro ieri dalle Nazioni Unite. Pochi metri più in là, dietro vecchi schermi d'acciaio piazzati come cartelloni elettorali (servivano a difendere i passanti dai cecchini) i suoi uomini comincia- no a percorrere lentissimi il ponte, preceduti da una piccola gru e da una macchina che somiglia a un «muletto» meccanico. «Stiamo cominciando a sminare spiega con forte accento bretone il capitano -. Ci sono anche centinaia di proiettili inesplosi: sarà un lavoro lungo. Prima o poi speriamo anche di poter metter su una specie di accampamento. In questi palazzi? No: sono ancora presidiati da bosniaci e da serbi...». Siamo sulla Voyvoda Putnica, il grande boulevard che costeggia il fiume Miljacka: da questa parte c'è (c'era?) il fronte bosniaco, marcato oltre la strada da una cortina di palazzoni devastati dalle granate serbe. Dall'altra parte del ponte, sulla Grbavica, altri falansteri ischeletriti segnalano le postazioni nemiche, devastate dai bosniaci. «Sono a dieci metri da noi», dice il capitano. «Stanotte abbiamo chiacchierato a lungo». Sul marciapiede, leggermente infastidita dalla presenza di poveri mortali, si aggira anche una troupe della Cnn. Strano come a volte la televisione scivoli rapida sulle immagini senza accorgersi delle incredibili storie che ci sono dietro. L'omino dell'acqua si era fatto riprendere docile, guardava la troupe che si allontanava senza salutare, poi ha stretto le spalle, ha preso il catino ed ha fatto per rientrare in casa. Casa? L'abitazione di quell'uomo è una costruzione bassa e rossiccia, al numero 49. Un rude¬ re che chiunque avrebbe scambiato per una postazione di difesa, riconoscibile solo da una vecchia insegna, «Viski Bar Bel Ami». Lì dentro Ferjo Hodic, 58 anni, imbianchino, da 22 mesi vive con moglie e figli esattamente sotto, al centro della linea del fuoco. E con lui, ai due piani superiori, le famiglie Miletic e Borovoje, serbe, Dragoje, croata, oltre agli Hodzic, musulmani anche loro. E' un ometto magro, il signor Hodic, come piccolo e smagrito appare anche il maggiore dei tre figli, Mustafà, soldato dell'esercito bosniaco. «Venga, entri pure in casa». Lui si sfila le scarpe, come in ogni casa musulmana, ma all'ospite fa segno di entrare pure con gli stivali infangati. Tre stanze in tutto, un ingresso con un armadio in formica, e la signora Hodic prontissima a indicare i segni delle pallottole sulla porta d'ingresso, le tapparelle, le pareti, le ante dei mobili. «Come viviamo? Adesso, abbastanza bene: da ieri, coi blindati dell'Onu parcheggiati qua fuori, non sentiamo più sparare. Sembra incredibile, pare quasi che manchi qualcosa alla vita quotidiana... Sempre che non ricomincino». Nella stanza di Mustafà, sotto il grande poster di una decappottabile da sogno è posato un Kalashnikov che non stona con l'arredamento. «Problemi? Il cibo anzitutto». E' ancora la signora Hodic a parlare, con grande spirito pratico. «Nelle ultime due settimane abbiamo ricevuto dalle Nazioni Unite solo un po' d'olio e dei fagioli». L'imbianchino insiste per mostrarci il resto. Nel fazzoletto di terra che è fra la casa e la strada c'è un orto di guerra che potrebbe essere piazzato su un balcone, tanto ò piccolo. L'acqua arriva solo fuori, e in certi giorni di sparatoria furiosa, procurarsela è stato un problema. Il segreto di questa casa, sta probabilmente nella sua straordinaria capacità di mimesi: vista dalla strada non pare affatto diversa dagli edifici che la circondano. Anche quell'insegna, quella del «Viski Bar», sembra rimandare a vite precedenti, epoche che non torneranno più... Perché sotto quell'insegna non c'è nulla, vero? A quella domanda l'imbianchino Ferjo Hodic si è messo a ridere, ha chiamato con un gesto una bella ragazza (si chiama Dejana, è di origine serba e quest'anno conta di sposare il giovane Mustafà) e ci ha fatti accompagnare nel sottoscala. Avreste mai pensato a un locale notturno sotto la linea del fronte? Il «Viski Bar Bel Ami» funziona da due anni. Fuori cavalli di frisia, blindati, mine, devastazione: li sotto due stanzoni, neanche male, con luci soffuse, divani rotondi, qualche thermos pieno di Nescafè e un incredibile sottofondo musicale: per mesi a coprire schiocchi e boati ha pensato Frank Sinatra. «Vengono anche dei clienti: ragazzi e ragazze, una ventina a sera. Fino alle nove e mezzo, poi c'è il coprifuoco». Prima di tornare a infilarsi nella sua tana di prima linea, il signor Hodic ha insistito perché prendessimo un caffè. Nella Sarajevo di questi tempi, è un bene prezioso. Non ha accettato un marco. Giuseppe Zaccaria Il generale inglese minimizza la notte di bombe Un'intera caserma rinuncia al suo arsenale Due immagini di Sarajevo in guerra Vecchi e bambini musulmani alla preghiera del venerdì e caschi blu che osservano gli spostamenti dei cecchini

Persone citate: Dejana, Frank Sinatra, Hodzic, Michael Rose, Miletic, Mustafà, Philippe Pousset, Richard Pernod

Luoghi citati: Bar Bel Ami, Ginevra, Sarajevo