La c GIORNALISTA GUERRA LONDRA di Mario Ciriello

L'epopea delle donne al fronte: la prima fu un'inglese seguace di Mazzini, che sposò un patriota incarcerato L'epopea delle donne al fronte: la prima fu un'inglese seguace di Mazzini, che sposò un patriota incarcerato La c GIORNALISTA GUERRA LONDRA I siamo ormai abituati alle giornaliste sul campo di battaglia, alla presenza del c LONDRA I siamo ormai abituati alle giornaliste sul campo di battaglia, alla presenza del «gentil sesso» fra gli orrori e i terrori della guerra, alle soldatesse le cui uniche armi sono un microfono o una penna. Sono così tante e così brave che si dimentica quanto sia stata lunga, ardua, ripida la strada che le donne hanno dovuto percorrere prima d'essere accolte come reporter, di guerra nonché di pace, prima che il giornalismo le accettasse fra i suoi adepti. C'è voluto più di un secolo. Nel romanzo di Henry James, The Portrait ofa Lady, scritto nel 1881, un americano in Inghilterra trema alla prospettiva di incontrare Henrietta Stackpole, una connazionale in arrivo da New York, collaboratrice di una rivista, e borbotta: «Un reporter in gonnella? Dev'essere una specie di mostro». Questa diffidenza non è scomparsa del tutto, ancora oggi, in vari Paesi, il prezzo del successo nel giornalismo è più alto per la donna che per l'uomo. Se la reporter mostra grinta e intraprendenza, i colleghi, soprattutto in situazioni difficili e rischiose, la giudicano aggressiva, una virago quasi; se riesce a conservare la sua femminilità, è vista con sospetto, come fosse una Mata Hari, scaltra, insidiosa. Un'americana, veterana di molte guerre, dice: «I miei compagni di lavoro trattano le giornaliste al fronte come se fossero una via di mezzo tra un paria e una ninfomane assetata di emozioni forti». Questi episodi e queste testimonianze sono tra le molte gemme di un nuovissimo libro, Battling far news, the rise ofthe woman reporter, ovvero «Lottando per le notizie, l'ascesa della donna reporter». Il volume, edito da John Curtis, è opera di Anne Sebba, una giornalista inglese che, dopo aver lavorato in varie capitali per la Reuter, scrive ora biografie. Non è un testo femminista, tutt'altro. Anne Sebba non trasforma le sue reporter in eroine, non le innalza su piedistalli, ne descrive le avventure, i trionfi, le delusioni, ma senza mai falsare i ritratti. E come indica gli antagonismi maschili, così rivela le invidie e le insinuazioni delle colleghe, le «sorelle» sono spesso più impietose dei «fratelli». Martha Gellhorn così ricorda Virginia Cowles: «Non gliene importava un accidente del giornalismo. Era pigra, si nutriva di pettegolezzi, era del tutto inattendibile». Un difetto il libro ha, o meglio una manchevolezza: limita la sua attenzione al giornalismo angloamericano. Vero è che questo giornalismo ha dominato per molti anni la scena internazionale, che è stato, e tuttora è, il più intraprendente; vero è che ha accolto le più scintillanti «grandi firme» femminili, un firmamento in cui luccicano i nomi di Martha Gellhorn, Marguerite Higgins, Clare Hollingworth, Virginia Cowles, Elizabeth Wiskemann e, più indietro nel tempo, Sarah Wilson e Florence Dixie. Anne Sebba non fa menzione di Oriana Fallaci, ad esempio, ricorda però «che oltre settanta donne reporter lavorarono in Vietnam, durante la guerra» e che due, l'americana Elizabeth Pond e la neozelandese Kate Webb, furono catturate dai nordvietnamiti. Dell'Italia si parla, invece, e per molte pagine, nel primo capitolo: e questo perché fu in Italia che germogliò quella che, secondo Anne Sebba, fu la prima vera fareign correspondent e war correspondent nella storia del giornalismo. Chi ben conosce personaggi e vicende del nostro Risorgimento ha incontrato questa donna straordinaria, l'inglese Jessie White, bellissima, dei lunghi capelli biondi, seguace appassionata di Mazzini e di Garibaldi. Sposò nel 1857 il radicale Alberto Mario, da lei conosciuto in carcere mentre scontavano una condanna per aver partecipato entrambi, in quell'anno, al tentativo mazziniano di insurrezione a Genova. Quando Garibaldi e i Mille sbarcarono in Sicilia, Jessie White e il marito erano con lui. Jessie White aveva già scritto per pubblicazioni inglesi e americane, ma, dopo la spedizione dei Mille, la sua penna s'arroventò. Leggiamo: «I suoi servizi di guerra erano vividi, vibranti, tanto più in quanto Jessie esplorava la vita nelle retro¬ vie, rivelava la tragica esistenza nei miseri villaggi del Sud, la disperazione negli ospedali e nelle scuole. Questa sua sensibilità, questa compassione rendevano insuperabili i suoi dispacci». Mazzini disse di lei: «Jessie parla come un soldato, insulta tutti e, con il suo tono dittatoriale, è peggio di Garibaldi». Morì nel 1906, a 74 anni d'età, e il periodico americano The Nation così la ricordò: «Scrisse su tutto, dai mo- saici fiorentini ai vetri veneziani, ma due articoli sono quelli che resteranno più a lungo nella mente e nei cuori dei nostri lettori. Quello sugli orrori della vita sotterranea di Napoli e quello sulle miniere di zolfo in Sicilia». Nonostante il suo tratto garibaldino Jessie White Mario rimase sempre una lady e, come lei, due al- tre antesignane del giornalismo femminile di punta, Florence Dixie e Flora Shaw. Lady Florence Dixie, figlia del marchese di Queensberry, accettò di «coprire» la guerra in Sud Africa, nel 1880, per il Morning Post nel tentativo di limitare i danni inflitti al patrimonio familiare dal marito, sir Beaumont Dixie, un giocatore d'azzardo. Flora Shaw, pure inglese - descritta «sempre elegante, vestita di nero, dignitosa, attraente, charming» -, si distinse nel Medio Oriente alla fine del secolo. Nel 1898, 0 Times la spedisce tra i minatori del Klondike, in Canada. Il viaggio dura oltre un mese e, verso la fine, Flora cammina quasi trenta chilometri al giorno. Spesso, sui battelli e nei tumultuosi accampamenti, si trova ad essere l'unica donna, altre volte, le sole donne sono prostitute. A poco a poco, gli smilzi plotoni si infittiscono: e con l'arrivo degli Anni Trenta arrivano alla ribalta le americane Virginia Cowles e Martha Gellhorn. Virginia pareva una film-star, très chic, snella, occhi scuri e intensi, raramente sfoderava pensieri profondi, ma arrivava ovunque, era inarrestabile. A Roma, una settimana dopo l'invasione dell'Abissinia, ottiene un'intervista con Mussolini. Durante la seconda guerra mondiale telegrafa direttamente ad Eisenhower per dirgli che gli alti comandi le vietano l'accesso al fronte. Ike emana un ordine rimasto famoso: «Miss Cowles, can go where she likes», può andare dove vuole. Inviata in Spagna dall'inglese Sunday Times, durante la guerra civile, riferisce da entrambi i fronti, quello governativo e quello di Franco, affrontando rischi tremendi. Ma sempre appare sulla scena con i tacchi alti e braccialetti d'oro. Martha Gellhorn, cui Hemingway dedicò Per chi suona la campana e che divenne la sua terza moglie, era l'opposto della Cowles: colta, preparatissima, eccellente scrittrice, vide nella guerra civile in Spagna non soltanto una sfida giornalistica, ma anche una causa. La donna che emerse da quel battesimo di fuoco si affermò rapidamente come un giornalista formidabile. Voleva assistere allo sbarco alleato in Normandia, ma, priva di accreditamento, si imbarcò di nascosto su una nave ospedale, si rintanò nel gabinetto, da dove emerse quando il vascello giunse dinanzi alle spiagge francesi. Non rivelò a nessuno la sua identità e condivise tutti i pericoli dei barellieri e delle infermiere che raccoglievano i feriti sotto il fuoco tedesco. Poi, altre avventure, altri e importanti scoop, altri libri. «Era bionda, alta, una gran bella ragazza», ricorda chi la conobbe in quel lontano passato. Sex-appeal aveva pure Marguerite Higgins, morta nel 1966, a soli 46 anni, uccisa da un'infezione al sangue, la Leishmaniosi, contratta in Vietnam. Nel '45 era arrivata al Lager di Dachau con le SS ancora sulle torrette. Quanto puntano le armi contro di lei, la novella war correspondent grida: «Kommen Sie hier, bitte. Wir sind Amerikaner»: le 22 guardie scendono e si arrendono. L'inviata di guerra più celebre resta però l'inglese Clare Hollingworth. E' stata ovunque, in tutti i conflitti, su tutti i fronti. Tre anni fa, all'inizio della guerra del Golfo, Clare dormì varie notti sul pavimento della sua stanza da letto per allenarsi alle privazioni di questa ennesima campagna militare. Ma, per la prima volta, nessun giornale la chiamò. Tutti l'ammiravano e l'amavano, ma la veterana aveva appena compiuto gli 80 anni. Con tutte le sue omissioni il libro di Anne Sebba è importante perché demolisce molti miti. Mostra che le donne possono gareggiare con gli uomini anche nelle situazioni più difficili; conferma che, in una guerra, possono narrare e descrivere tutto, non soltanto le scene che strappano le lacrime. La prova? L'abbiamo ogni giorno, nei dispacci, scritti e televisivi, dalla Bosnia. Non basta. Spesso le giornaliste sono meglio dei giornalisti. Forse ha ragione la reporter americana Edie Lederer, distintasi in Vietnam e nella guerra del Golfo. Conclude: «Gli uomini diffidano sempre degli altri uomini. Quasi tutti, quale che sia il loro sesso, preferiscono parlare, confidarsi, a una donna piuttosto che a un uomo». Mario Ciriello Un libro inglese narra 150 anni di un mestiere pericoloso TA A e miti o o a e vie, rivelava la tragica esistenza nei miseri villaggi del Sud, la disperazione negli ospedali e nelle scuole. saici fiorentini ai vetri veneziani, d ili l go whve vuoglese guerrai frontdi Framendiscena d'oro. Martway dpana mogliecolta, scrittrSpagnnalistidonnamo di te comVolevain Nortamenuna ngabineil vasspiaggsuno lti i perifermiesotto iventuraltri lgran bconobSexte Higanni, ugue, lVietnager di In Vietnam, durante il conflitto, lavorarono più di 70 donne reporter. E due vennero catturate dai nordvietnamiti