Lacrime e baci sulle scale nel condominio della fame di Giuseppe Zaccaria

Ogni famiglia ha il suo morto e i pochi viveri sono in comune Lacrime e baci sulle scale nel condominio della fame NELLA CITTA' CHE SI LASCIA SARAJEVO DAL NOSTRO INVIATO Vista dalle vetrine «déco» del «Kava Gardenija», Sarajevo non sembrerebbe così disperata. Non perché qui la guerra non arrivi, tutt'altro: trenta metri a sinistra, la piccola via Principa sfocia sulla Marsala Tita, dove ad ogni incrocio pile di vecchi «containers» tentano di sbarrare il tiro ai cecchini. Trenta metri a destra, c'è la piazzetta del Teatro Nazionale dinanzi al quale, stamani, assieme a due auto di lusso sostano un vecchio pullman e molti blindati. Il fatto è che ai cinque tavolini in mogano del vecchio locale, servono un Nescafè da tre marchi che sembra quasi un espresso. Provare per credere, ci aveva detto il dottore, e seguirlo è stato come inforcare un paio d'occhiali che hanno aperto la vista sull'economia di sopravvivenza. Ha 67 anni, il dottor Pero Levnaic, già direttore di sede della «Neka», società di conservazione e lavorazione del pesce, che un tempo arrivava dalla Dalmazia. E' un signore distinto, vestito con un impeccabile soprabito scuro, che poco fa era al teatro, per prendere parte alla celebrazione. C'è ancora gente che ha il coraggio di celebrare, a Sarajevo: ieri, erano esattamente dieci anni dall'inaugurazione delle famose Olimpiadi invernali. Sala gremita, gente vestita in maniera incredibilmente propria: in quella bomboniera tutta oro e stucchi pareva quasi stonato il simbolo, 5 cerchi intrecciati che grondano sangue. C'erano i vecchi manifesti di Izmar Mujezinovic: sciatori, pattinatori, bobbisti in movimento, tutti disegnati con un tratto nervoso, tutti colorati di un cupo vermiglio. E c'era il dottor Levnaic. Proprio sul passaggio dov'era scritto «Mezanin - Loze Galerja» il suo sguardo ha incrociato il nostro, è sceso lungo il giubbetto antiproiettile e si è fermato all'elmetto bianco, portato in mano. Poi un sorriso e una battuta, in francese: «Che succede? Fuori piove?». Il fatto che stesse piovendo davvero non ci ha fatti sentire meno fuori luogo. Poi, sapete, una parola tira l'altra, e mentre la celebrazione andava avanti il dottor Levnaic è uscito con noi, ha acconsentito a guidarci prima nella zona, poi nel suo palazzo, infine nella sua vita. Sempre con quell'aria fra il sommesso e l'ironico, ci ha aperto gli occhi su un altro, terrificante aspetto di una guerra che, per noi, torna a tratti sulle prime pagine solo quanto tocca i bambini. Ci eravamo dimenticati degli anziani. Poveri, disperati superstiti di esistenze devastate due volte, scampati a una guerra mondiale per finire in un conflitto tribale, appendici di una società che non ha il tempo né i mezzi per pensare a loro. Quelli che a mezzogiorno, sotto la pioggia gelida che comincia a martellare Sarajevo, si presentano ancora un po' vergognosi alla fine della Marsala Tita, dove ogni giorno la mensa popolare distribuisce 1400 pasti. Anche il dottor Levnaic ci va, col suo pastrano elegante e il cappello nero. Ci va perché la mensa popolare è vicina a casa, ci va due volte di fila, se serve, e ci va anche per conto degli altri, perché abita al primo piano e per lui scendere e salire le scale non è poi così disagevole. Per la vedova di Jasko Kovcic, quella del terzcn piano, fare lo stesso non sarebbe possibile. E' molto anziana, soffre di artrite: se non ci fosse il vicino non saprebbe come fare. Ma nel palazzotto di via Principa 19 sono molto uniti: «Cosa vuole, prima c'erano i Kadic, quelli dell'ultimo piano, che legavano poco, si sen¬ tivano superiori. Lui era un funzionario del partito... sì, il partito comunista... e guardava tutti dall'alto in basso. Poi anche a lui è toccato andare in pensione, poi è cominciata questa guerra, ed anche le pensioni sono finite». Come, finite? «Finite, così, pouff...». Si soffia sulla mano per rafforzare il concetto, il dottore: non esiste più nulla. I vecchi di Sarajevo - ma non solo di Sarajevo - da oltre un anno non ricevono più nulla. Non un soldo, neanche uno svalutatissimo dinaro ex federale. E' stato allora, racconta Levnaic, che la solidarietà ha cominciato a farsi strada. Tutto cominciò con la morte di Jasko, quello del terzo piano, investito da un'auto mentre scappava per sfuggire a un cecchino. Fu un lutto per tutto il palazzo. Il primo. «Poi da allora non c'è stata settimana in cui qualcuno non bussasse alla porta degli altri per annunciare, piangendo, che era morto un parente, un nipote, un amico». Cominciò così, ricorda Levnaic. Il caffè è proprio accanto al portone del numero 19, e lui prese l'abitudine di scendere giù al pomeriggio per portare qualcosa alla vedova Kovcic. Poi il «Kava Gardenija» ebbe sempre meno da vendere. E un giorno furono i Kadic, sì, proprio gli ex supponenti Kadic, a bussare alle porte degli altri perché dalla Germania una cugina aveva spedito un pacco pieno di formaggio e cioccolata, e c'era qualcosa da poter dividere. «Vuole sapere come funzionano le cose a Sarajevo, come riusciamo a sopravvivere? Stando assieme, sempre più assieme. E' un modo per trovare un po' di conforto, certo, ma anzitutto una necessità». Il pane non manca: è il solo alimento che si sia trovato ogni giorno, da quando questa lotta di dissanguamento s'è ini¬ ziata. Ma per tutto il resto bisogna arrangiarsi. La zuppa, una cosa giallognola nella quale nuota qualche spaghetto, arriva dalla mensa. Ogni tanto c'è anche un pezzetto di carne annegato nelle patate. Il caffè non si vede da mesi, ed anche per questo adesso il dottore ne ordina volentieri un altro. Pochi giorni fa la vedova Kovcic ha messo in vendita la macchina da cucire. Una vecchia Borletti, un cimelio, eppure utilissima di questi tempi, con l'elettricità che va e viene, i pezzi di ricambio che non si trovano per macchine più sofisticate, 250 marchi: una benedizione. Con quei soldi ogni giorno il dottore va in cerca di cose da comprare, e ogni tanto ne trova. Mai aveva avuto il coraggio di spendere tre marchi per un caffè. Ma dove si compra, dove si scambia: dove si rifornisce il comdominio di via Principa 19? «Venga, le faccio vedere». Basta fare trenta metri e sfociare sulla Marsala Tita: i mercatini murali sono segnalati dai capannelli. Ad ogni isolato, una ex finestra, un portone inchiodato diventano vetrine di una straordinaria esposizione di bisogni. Cerco spinterogeno per una «Golf»; vendo equalizzatore stereo; a trecento marchi guardaroba completo per uomo taglia 48 (chissà che fine ha fatto, quell'uomo taglia 48); cerco vitamine e preparati per l'ulcera. Seguono numeri di telefono, quando ci sono, più spesso gli indirizzi, e a volte anche una piantina per giungere con meno rischi sul luogo dello scambio. Sulla via centrale di Sarajevo, stamani c'è un affollamento insolito. Anche di troupes televisive. Tutte lì a domandare ai passanti: cosa pensate, questa volta la Nato bombarderà? La gente passa via infastidita e risponde «no». E lei cosa dice, dottore: questa volta, succederà qualcosa? Altro mesto sorriso: «Che senso ha un ultimatum senza scadenza? Lei avrebbe paura di me se le dicessi: guarda, smettila di prendermi a pugni sennò un giorno o l'altro ti schiaffeggio?». No, dottore. E purtroppo nessun altro proverà paura, o indignazione, o rimorso pensando a lei, alle migliaia di anziani come lei che lentamente si stanno spegnendo, con l'unica consolazione di farlo insieme. La mattinata, questa piovosa e fredda mattinata di Sarajevo, si è conclusa da tutt'altra parte, in tutt'altro ambiente, che forse sulla psicologia di un occidentale ha impatto maggiore. All'ospedale di Kosevo, reparto maternità, il professor Srecko Simic, leggendo carte appuntate su un materasso, poggiato come una lavagna alla parete, per mezz'ora ha citato grafici e cifre, finendo senza volerlo col tenere una lezione sul rapporto fra sesso e guerra. Prima del grande disastro in questo reparto nascevano 9 mila bambini l'anno. Poi il grande disastro s'è iniziato: il grafico dell'ospedale Kosevo mostra il suo punto più basso nel febbraio del '93, dieci mesi esatti dopo lo scoppio delle ostilità. Solo 77 nati, il minimo storico: con la guerra, nessuno faceva più l'amore. Poi, lentamente, la curva ha ricominciato a salire, come se dopo l'orrore alla gente non rimanesse altra consolazione, e oggi siamo nuovamente intomo alle 170 nascite al mese. Quasi .l'indice di prima della guerra, se alle nascite si sommano gli aborti volontari, in crescita paurosa. Quanto a lei, dottor Levnaic, si metta l'anima in pace, se può. Accade ogni tanto che i bambini muovano il mondo a compassione. Ai vecchi non capita quasi mai. Giuseppe Zaccaria Ogni famiglia ha il suo morto e i pochi viveri sono in comune Un musulmano scava nel cimitero di guerra. A destra le tombe dentro lo stadio

Persone citate: Borletti, Kava, Simic