Così scoprimmo la strage

FOSSE ARDEATINE I salesiani di San Callisto: testimonianze inedite e nuove verità a 50 anni dall'eccidio FOSSE ARDEATINE Così scoprimmo la strage NROMA EL buio della cava rischiarata da una candela, in cima a una scala appoggiata a ——I quella montagna di detriti che impediva l'accesso alla galleria, nel timore che ritornasse il soldato tedesco di guardia e con il batticuore, l'incoscienza, gli slanci di generosità cui i lunghi mesi dell'occupazione nazista li avevano esercitati: così i giovani salesiani delle catacombe di San Callisto, confinanti con le Fosse Ardeatine, videro per primi lo scempio che i tedeschi - il 24 marzo di cinquantanni fa, come risposta all'attentato di via Rasella che aveva causato la morte di 32 loro soldati - avevano fatto dei 335 prigionieri politici, ebrei, detenuti per piccole infrazioni o per semplici sospetti, prelevati nel carcere di Regina Coeli e nel quartier generale dei nazisti di via Tasso. «Prima non vidi niente. Mentre un odore pesante arrivava fino al varco da cui potevo affacciarmi. Poi incominciai a distinguere di che cosa era fatta quella montagna alta almeno due metri che si levava nel buio. Corpi l'uno sull'altro. Teste, gambe e braccia penzoloni. Scesi in silenzio e, dopo di me, salirono gli altri quattro confratelli con cui ci eravamo avventurati fin lì, seguendo il filo rosso usato dai tedeschi per far scoppiare le mine e che usciva dal terreno smosso della galleria», ci racconta don Giovanni Fagiolo, allora animatore spirituale della comunità di San Tarcisio, una delle due che si trovavano all'interno del grande comprensorio delle catacombe di San Callisto (trenta ettari fra la via Appia e l'Ardeatina, un seminario, un convitto, scuole, coltivazioni agricole, allevamento di bestiame, e la cura delle catacombe). Studiava all'Università Gregoriana. Solo in parte conosceva la fitta rete di relazioni che, al suo fianco, altri salesiani intrecciavano con le autorità vaticane e i gruppi della Resistenza per salvare vite umane e tener testa agli occupanti. La regola era quella di non fare domande, non lasciare niente per iscritto. «8 settembre 1943: dichiarazione dell'armistizio e inizio dei nostri guai», è la più esplicita espressione che si incontra nella cronaca della casa salesiana, scritta dal direttore don Umberto Sebastiani. Mai un dettaglio, un commento, una pericolosa ammissione su quello che travagliava la comunità e Roma, su quello che - contro la tradizione dell'ordine salesiano e le disposizioni delle autorità politiche - all'ombra delle catacombe si stava vivendo. Don Fagiolo non voleva sapere troppo. Eppure proprio a lui il confratello Ferdinando Giorgi - studente del conservatorio, 32 anni, allegro ed estroverso, che per la sua opera di «patriota-partigiano» ha avuto poi tutti i riconoscimenti ufficiali - aveva chiesto di nascondere armi nella sua camera e di consegnarle man mano, di notte, quando gli sarebbe stato chiesto. ((Ancora adesso mi vengono gli incubi - ricorda don Fagiolo -. Era proibitissimo. Se i tedeschi facevano una perquisizione trovavano che la mia camera era un'armeria. C'erano fucili sotto il letto, nell'armadio. Fucili che di continuo arrivavano e venivano dati via. Don Giorgi mi diceva quello che dovevo fare, non altro. Eravamo giovani. Non conoscevamo la prudenza». Secondo la versione ufficiale, finora, il massacro delle Fosse Ardeatine venne scoperto il 30 marzo: così scrisse don Michele Valentini teologo, confessore della comunità di San Tarcisio, protagonista di quel gruppo di antifascisti cui l'Associazione nazionale combattenti riconosce autorevolezza e meriti, «il gruppo don Valentini» - nella relazione che allora fu fatta pervenire in Vaticano, al comitato militare clandestino, al governo Badoglio (via radio), e ora è esposta al museo storico della Liberazione di Roma di via Tasso. Oggi invece i salesiani raccontano che la scoperta avvenne prima di quella data. Forse due-tre giorni dopo l'eccidio. Forse il giorno successivo, come sostiene don Francesco Motto, docente presso la Pontificia Università Salesiana, in un saggio che sta per uscire su Ricerche Storiche Salesiane. Nella memoria dei testimoni alcuni dettagli sono sfuocati, altri nitidissimi, scolpiti nel cuore. Don Fagiolo ricorda: «Una mattina, forse il 25 marzo stesso, un soldato tedesco entrò da noi e chiese di telefonare al suo comando. Il telefono era sul banco vendite degli oggetti religiosi. Luigi Szenik, confratello laico che faceva la guida, ungherese, sentì la comunicazione. Il soldato disse: "Tutto compiuto". Se ne andò e non tornò più. Il confratello non seppe tenere per sé il terribile sospetto. Quando fummo a pranzo, me lo riferì. Nel primo pomeriggio entrammo nella cava. Quello spettacolo ci agghiacciò. A don Giuseppe Perrinella, un giovane diacono che era con noi, sollevai le vesti e legai alla vita quel filo rosso che ci aveva guidati. Tornammo a casa senza scambiarci una parola. Io tacqui con tutti. Avvisai solo don Valentini. Mia madre - che era sfollata da noi - mi disse: "Puzzi, puzzi di cadavere", lo seppi dire soltanto: "Sono stato nelle catacombe"». La tragedia era nell'aria. Gino Cacioli, salesiano laico, responsabile dell'azienda agraria di San Tarcisio e insegnante di materie tecniche nella scuola di avviamento agrario, aveva un ruolo di spicco sia nella comunità sia nel gruppo che faceva resistenza attiva. Ci racconta: ((Avevamo una ricetrasmittente, installata su un barcone sul Tevere all'altezza del gasometro. Ogni sera 0 tenente Maurizio Giglio, figlio del fe¬ derale di Bologna, comunicava con il generale Clark. Dal tetto di San Tarcisio vedemmo, a metà marzo, che la "Cicogna" girava, girava in quella zona. Eravamo ricercati. Avevamo contribuito a far saltare quindici vagoni di munizioni tedesche fra la Tuscolana e l'Ostiense. Con i chiodi a quattro punte avevamo immobilizzato trecento automezzi sull'Ardeatina. Pregai Giglio di non andare, quella sera. "No, devo dare una comunicazione urgente", insiste. Il 16 fu arrestato. Lo torturarono a via Tasso, ma non fece i nostri nomi. Aveva 23 anni. Il 24 fu una delle vittime delle Fosse». Il primo teatro delle loro azioni «eravamo un gruppo di amici, niente altro» si schermisce il professor Cacioli - era stato San Callisto. Racconta: «Dopo l'8 settembre i tedeschi, a ridosso del muro di cinta e prima dell'edificio scolastico, raccolsero circa 180 prigionieri. Il comandante era un capitano austriaco, molto cortese con noi. Ma quando si accorse che quasi ogni sera riuscivamo a farne scappare 8-1012, mi minacciò: "Se non la smette, dovrò prendere dei provvedimenti contro di lei". Durò una settimana. Poi li portarono via. Li portarono all'Ostienese, su vagoni piombati. Era immaginabile il loro destino. Noi - attraverso le maghe più svariate - contattammo il capotreno, perché rallentasse la corsa dopo Orbetello, là dove c'è una zona boscosa e dove sarebbero passati di notte. Avvisammo i prigionieri, perché facessero il possibile per forzare la chiusura dei vagoni. Tutto si svolse nel migliore dei modi. Riuscirono a svignarsela quasi tutti. Fu il nostro primo atto di sabotaggio. La nostra prima affermazione di libertà». Da allora San Callisto divenne un ricettacolo dell'umanità più svariata. C'era un popolo di terra e uno sotterraneo. «Sotto, nelle catacombe, chilometri di gallerie tutte percorribili, c'erano i tedeschi che incominciavano a defilarsi, prigionieri inglesi e americani che erano scappati, repubblichini, soldati italiani, perseguitati politici. Ogni gruppo occupava un settore a sé delle catacombe. Non si incontrarono mai fra loro. La disciplina che imponevamo era rigida. L'ora per la passeggiata, di notte. L'ora del pasto, che gli portavamo giù. Rimanevano giorni, a volte un mese. L'unico incidente lo ebbi con un gruppo di tedeschi. Una notte - mentre facevamo la ronda, con i contadini dei Castelli che qui si erano rifugiati con i loro animali (nel giugno del '44 avevamo 298 capi di bestiame fra mucche, cavalli, maiali, galline: una ricchezza che ci permise di dar da mangiare a tante persone) - ce li trovammo davanti, non nell'ora prevista. Gli intimai l'altolà e sparai un colpo in alto. Erano i nostri ospiti. Tutti armati. "Domani, o trovo le vostre pistole sul lucernaio, o ve ne andate", gli dissi. Il giorno dopo le armi erano sul lucernaio». Sopra, fra il parlatorio, le stalle, gli edifici delle api, i magazzini, i depositi, gli orti, altre decine di persone vivevano in un'apparente normalità. Campanelli d'allarme, per prevenire incursioni dei nazifascisti, erano installati ai quattro ingressi. C'erano ebrei, senzacasa, renitenti alla leva, sfollati, sbandati, famiglie. E i religiosi, i ragazzi del convitto, i ragazzi che venivano a scuola. Le donne ebree e le fighe che non si facevano mai vedere in giro. Due sorelle che una volta recitarono nel teatrino dell'oratorio. Due ragazzi ebrei con l'abito talare, che andavano a tutte le cerimonie religiose e giocavano a pallone con i ragazzi del convitto. C'era il padre di don Fagiolo, che col carretto, sotto l'erba, trasportava ufficiali americani e militanti antifascisti in rifugi sicuri. C'erano, nelle stalle, i cavalli del generale Roberto Benci- venga, il comandante - su nomina di Badoglio - della piazza di Roma. Chi non varcava mai i cancelli. Chi andava a lavorare o a ritirare documenti, stipendi. Quelli da portare al sicuro presso famiglie amiche o in Vaticano. Quelli cui procurare documenti falsi. «Uno solo mandai via - ricorda il professor Cacioli -. Il generale Mario Caracciolo. Si ostinava a voler usare in continuazione il nostro telefono. A uscire senza voler indossare l'abito talare. "Lei era un generale fino a ieri. Oggi deve ubbidire. O fa come dico io o se ne va", gli intimai. Se ne andò. Tre giorni dopo, purtroppo, fu preso alle catacombe di San Sebastiano». Dell'attentato di via Rasella seppe dalla radio. «Per tutto il giorno, fino a sera inoltrata, la radio invitava i responsabili a costituirsi, pena l'applicazione delle disposizioni che volevano dieci italiani uccisi in cambio di ogni vittima. Il 24 gli appelli cessarono. Il pomeriggio tutta la zona intorno a noi venne chiusa, proibito affacciarsi, proibito uscire dai cancelli. Ci fu un gran trambusto di macchine di tedeschi. E poi il rumore dei camion. Camion chiusi. Auto della Croce rossa. Auto che arrivavano. Auto che ripartivano. A sera, verso le otto, si sentì un boato (l'esplosione della mina con cui i tedeschi chiudevano l'accesso alla cava dove avevano ammucchiato le vittime). Ma era un'epoca in cui spari, bombardamenti, esplosioni non facevano un'impressione particolare. Non capimmo. Verso le 10 le 11 di sera, la radio disse che la rappresaglia era stata compiuta. Noi non avevamo sentito spari, non gemiti, non invocazioni, come allora si disse. Niente. Non si sentì niente. Solo dopo quel comunicato incominciammo a riflettere, a fare connessioni, a nutrire dei sospetti per quel soldato tedesco che per qualche giorno rimase a fare la guardia davanti alla cava. Quando se ne andò, io e don Giorgi ci precipitammo. C'era una scala. Avevamo una candela. Lo spettacolo non so descriverlo. Capimmo che a tutti avevano legato le mani dietro la schiena prima di sparargli alla nuca, ma che non tutti erano morti subito. Chi si era slegato le mani, chi le aveva conficcate nelle pareti forse nel tentativo di cercare uno scampo, chi le teneva conficcate nel petto di un altro infelice... Basta, non ci sono parole», ripete il professor Cacioli. Ha una testa tutta bianca. Davanti a lui, incorniciato, c'è il riconoscimento alla sua figura di patriota firmato dal maresciallo Alexander. Sorride quietamente: «Quando incontrai il generale Clark, mi ringraziò - a nome dell'America - per quello che avevo fatto. "No, guardi - gli dissi -, quello che ho fatto, l'ho fatto per il mio Paese, per la tutela di un bene che è di tutti: la vita, e la libertà"». Liliana Madeo Don Fagiolo: «A lume di candela, vidi una montagna di corpi affastellati uno sull'altro» «Un soldato tedesco parlò al telefono: "Tutto compiuto". Andai nella cava. Al ritorno mamma mi disse "Puzzi, puzzi di cadavere"» Callisto: testimonianze inedite e nuove verità a 50 anni dalleccidio IlAA sinistra e sotto: due immagini delle Fosse vnpvandava amenti, stsicuro prVaticanocumenti - ricorda nerale Mva a volenostro teler indosun generubbidire." li A sinistra e sotto: due immagini delle Fosse Il colonnello Kappler A lato, l'elenco dei caduti

Luoghi citati: America, Bologna, Orbetello, Roma