La mafia ordinò bisogna punire Andreotti di Giovanni Bianconi

Pentito svela il piano deciso un anno fa: l'ex presidente «aveva voltato le spalle ai clan» Pentito svela il piano deciso un anno fa: l'ex presidente «aveva voltato le spalle ai clan» La mafia ordinò: bisogna punire Andreotti «E' un traditore, il figlio morirà» ROMA. Giulio Andreotti doveva morire per mano mafiosa, come Salvo Lima. Cosa Nostra l'aveva condannato perché «aveva voltato le spalle» all'organizzazione. E se non si riusciva a colpire lui, doveva morire uno dei suoi figli. Il procuratore di Palermo Giancarlo Caselli, domenica sera, racconta al senatore a vita una delle ultime acquisizioni nell'inchiesta che lo vede indagato di concorso in associazione mafiosa. E' stato uno degli ultimi pentiti - Gioacchino La Barbera - a rivelare ai giudici il progetto di vendetta contro Andreotti. Al racconto di Caselli, il senatore reagisce con preoccupazione. «Questo mi mette in apprensione», dice. Il procuratore e i suoi sostituti scendono nel dettaglio, svelano i retroscena della confessione di La Barbera. In due occasioni, dopo la strage di Capaci e all'inizio del '93, all'indomani dell'arresto di Totò Riina, lui che stava sempre insieme ai super-latitanti Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca, lì sentì parlare della necessità di eliminare Andreotti. La sua «colpa» - molto simile a quella del fedele Salvo Lima, assassinato nel marzo del '92 - era quella di non garantire più Cosa Nostra da Roma, di aver abbandonato l'atteggiamento «morbido» nei confronti dei boss, di non aver impedito le misure anti-mafia varate dal ministro della Giustizia Claudio Martelli, come quel decreto che rispedì in galera i boss scarcerati da una sentenza della Cassazione. Ma un attentato «in trasferta» ad una personalità super-protetta come Andreotti non è cosa facile nemmeno per la mafia. E allora dissero Brusca e Bagarella davanti a La Barbera, presente anche Antonino Gioè, un altro mafioso, suicidatosi in carcere - si decise di ripiegare su una vendetta trasversale, colpendo uno dei figli del senatore a vita. Dovevano pensarci le «famiglie» di Catania, molto legate alla criminalità romana e quindi in grado di agire con maggiore efficacia nella capitale. Ma i tempi si allungarono, a marzo Gioè e La Barbera furono arrestati, non se ne fece più niente. Agli atti dell'inchiesta c'è anche un piccolo riscontro del rac¬ conto del pentito: nei discorsi registrati tra lui e Gioè nel «covo» di via Ughetti, a Palermo, si parla di un viaggio di Gioè a Catania. Andreotti, domenica sera, oltre a mostrarsi preoccupato insiste nel dire che lui di favori alla mafia non ne ha mai fatti, anzi. Ai giudici chiede di accertare se per caso, da parte dei mafiosi che lo chiamavano in causa come «referente romano» di fronte ai pentiti di oggi, non ci potesse essere una forma di millanteria. Poi, il giorno dopo, rilascia una dichiarazione decisa: «Che io fossi nel mirino dei mafiosi per i duri provvedimenti contro di loro presi dai governi da me presieduti, non mi meraviglia. Ma il sospetto che in precedenza io fossi stato benevolo verso la mafia è infondato e calunnioso, attendo ancora di conoscere un solo atto che avrei compiuto in questo senso. Ho manifestato ai procuratori di Palermo la speranza che siano essi a trovare gli autori di questa infame montatura». Insiste molto sui suoi provvedimenti antimafia, l'ex presidente del Consiglio, fin dall'inizio dell'inchiesta. E di fronte a nuove contestazioni - come i riscontri alle dichiarazioni di Francesco Marino Mannoia, o la testimonianza di un cameriere dell'hotel Zagarella che lo vide a colloquio con uno dei cugini | Salvo - continua a negare ogni coinvolgimento con Cosa Nostra. Ma sempre domenica, contemporaneamente all'interrogatorio di Andreotti, i giudici di Palermo ascoltano un altro testimone che smentisce almeno in parte la ricostruzione del senatore. In un altro ufficio della Dia Claudio Martelli, ministro della Giustizia fino ad un anno fa, racconta che i provvedimenti anti-mafia li volle lui, e che Andreotti non ebbe «alcun ruolo attivo e propulsivo». Per oltre quattro ore l'ex-Guardasigilli (oggi inquisito per le vicende legate a Tangentopoli) ripercorre gli anni passati al ministero della Giustizia, e ribadisce ciò che aveva detto l'anno scorso in alcune interviste dopo la richiesta di autorizzazione a procedere contro Andreotti: le leggi e i decreti contro le cosche li proposero lui e Scotti; Andreotti si limitò a non opporsi, del resto di fronte all'emergenza-criminalità non avrebbe potuto. Lui voleva altre cose, come l'abolizione della presunzione d'innocenza dopo la condanna di primo grado, che però avrebbe richiesto una riforma costituzionale e tempi lunghissimi. Le dichiarazioni di Martelli vengono contestate ad Andreotti quasi in contemporanea. Il senatore ribatte che i provvedimenti venivano sì presi dai ministeri della Giustizia e dell'Interno, ma sempre con il concorso e il benestare dell'ufficio legislativo della presidenza del Consiglio. A Martelli, riferisce An¬ dreotti, lui ha scritto anche una lettera per ricordargli questi fatti, ma non ha mai ricevuto risposta. E risale ancor più indietro nel tempo, ricordando che un suo governo (prima che Martelli andasse alla Giustizia) varò un decreto per evitare la scarcerazione dei mafiosi «che fu tanto efficace da provocare uno sciopero degli avvocati». Andreotti chiede che nel fascicolo che lo riguarda vengano acquisiti gli atti parlamentari dove sono riportati gli iter e le discussioni su queste leggi, e propone ai magistrati di interrogare Giuliano Vassalli, predecessore di Martelli al ministero della Giustizia. «Anche lui potrà testimoniare - insiste il senatore - che io alla mafia non ho mai fatto favori». Giovanni Bianconi A destra Claudio Martelli, ministro della Giustizia nel governo Andreotti A sinistra l'eurodeputato Salvo Lima, ucciso dalla mafia

Luoghi citati: Capaci, Catania, Palermo, Roma, Tangentopoli