Ai funerali di Igor, ucciso al mercato

Ai funerali di Igor, ucciso al mercato La polizia caccia gli ambulanti dalle bancarelle: non per pietà, ma per evitare altri massacri Ai funerali di Igor, ucciso al mercato Trecento lepidi, tutte con lo stesso anno: '94 A SARAJEVO CHE SI LASCIA MORIRE SARAJEVO DAL NOSTRO INVIATO A Mcrkale oggi le bancarelle sono vuote. Sarebbe normale da qualsiasi altra parte del mondo, in qualsiasi posto nastri di plastica marcherebbero un luogo divenuto così mostruosamente simbolico. In qualsiasi città o nazione, accanto al punto in cui è caduto il più devastante proiettile di questa guerra ci sarebbero fiori e biglietti e saluti di bambini e ricordi tracciati a pennarello sul cemento. Succede anche qui a Sarajevo. Ma solo da ieri. Poche ore prima non era così. Ieri mattina, a mezza giornata dall'eccidio, il mercatino aveva ripreso a funzionare. Poca roba: qualcuna fra le bancarelle più esterne ad esporre le solite, povere merci, gente che aveva occupato gli assiti con poche cose da barattare, un frullatore, un cappotto in similmontone. Ma si vendeva, si è venduto, madri di famiglia sono tornate a calpestare le lastre di cemento dove lunghi sbaffi neri hanno, e l'altro ieri ancora più dovevano avere, tutta l'aria del sangue rappreso. Poi ieri mattina è arrivata la polizia e ha transennato l'area. Ma non è per celebrare una memoria: solo, per evitare assembramenti all'aperto. Non è cinismo, solo spirito di sopravvivenza. Per ricordare bisogna prima sopravvivere. Quelli che adesso vedi girare per le strade di Sarajevo, lenti, solitari, quasi svagati, questo sono, niente più che sopravvissuti. «Sono un pazzo a portarvi fin qua», raccontava stamani l'autista che ci conduceva in albergo sfrecciando a centoventi all'ora lungo la Vojvode Putnika, più nota come «snipers boulevard», o viale dei cecchini. E mentre nell'abitacolo questa spirale continuava ad avvitarsi i finestrini seguitavano a inquadrare scene surreali, fotogrammi sempre più stranianti. Donne che si muovevano lente sui larghissimi marciapiedi del boulevard, sotto grattacieli devastati, bambini a seguirle docili, come per la passeggiata domenicale, e poi qualche signore con capello e pastrano, passo incerto e sacchetto di plastica nelle mani. Ecco cosa fa, la gente di Sarajevo: non corre più. Qualcuno, ogni tanto, se deve tagliare uno dei «corridoi di tiro» ancora scatta nell'antico, patetico tentativo di correre più veloce della pallottola, ma sono sempre meno. Gli altri escono, lentamente, cocciutamente, alla ricerca di quello che consentirà loro di sopravvivere, per rinchiudersi in casa prima del coprifuoco, mettere ancora il naso fuori domani, e ricominciare a muoversi su un tappeto d'indifferenza, in una sospensione mentale dove la litania dei colpi tirati dai cecchini - continua, ossessionante per qualsiasi orecchio straniero - giunge ovattata, solita, ininfluente. «Milleduecentesimo cessate il fuoco: 18 giugno '93. Durata: 13 secondi e 65 centesimi». La scritta beffarda che ti accoglie fra gli hangar dell'aeroporto, dove soldati canadesi e francesi attendono nel fango un imbarco per la licenza a Spalato, è tracciata a pennarello, ma nel tempo qualcuno l'ha ripassata, e ripassata ancora, per renderla sempre più beffarda e attuale. «A Sarajevo le cose si stanno mettendo male», ci aveva raccontato John Martin, maggiore americano, che alla cloche del suo «C 130» continua da mesi a volare in questa città. Sembrava una battuta, perché davvero pareva impossibile che qui le cose potessero «mettersi male», che esistesse un peggio rispetto a quello che tutti già abbiamo visto, udito, letto, sentito raccontare. E invece esiste davvero. E' quel «peggio» che sta spingendo il governo bosniaco, costituito da cento giorni appena, a fare sua la mozione che è stata prima della componente croata e poi dell'intero Parlamento. No alla tripartizione della Bosnia, guerra fino all'ultimo uomo per l'integrità del territorio. Il «peggio» che sta affiorando negli ospedali. «Abbiamo appena fatto una ricognizione tra i feriti ci spiegava nell'ex palazzo delle Poste, oggi quartier generale delle Nazioni Unite, Luigi Migliorini, giovane medico italiano, «e la situazione è sempre più preoccupante». Il ministro plenipotenziario Vitaliano Napoleone aveva appena concluso accordi per il trasferimento dei più gravi fra i feriti del mercato, ma a Migliorini, che è un epidemiologo, non sfuggivano altri elementi. «Ormai pare certo che a Sarajevo si sta sviluppando un'epidemia di epatite "A". Si diffonde attraverso l'acqua, adesso si sta cercando di dorare i rifornimenti idrici ma è difficilissimo tenere il contagio sotto controllo». Dolori ai fianchi, un senso di spossatezza sempre più profondo, e poi il colorito che si fa giallo, la vita che lentamente scivola via. Il peggio, quel peggio che pareva impossibile, adesso trasforma i cimiteri in agghiaccianti teatri, gli ultimi veri teatri di una città privata di qualsiasi altro palcoscenico, di ogni luogo di incontro. Adesso è lì, soltanto lì, che l'uomo di Sarajevo può parlare, può urlare. Fra la selva di sepolture musulmane, croci cattoliche e ortodosse accade che per un attimo questa vita da topi s'interrompa per lasciare spazio a tutto quel che non si è potuto, o saputo, gridare in due anni. C'era una scena incredibile, ieri mattina, in quell'ossessiva rassegna di numeri che qui passa sotto il nome di «cimitero del Leone». Si seppellivano i resti di Igor Remar, ventidue anni, cattolico, venditore ambulante del Merkale, un'altra delle vittine della strage di sabato scorso. Lo stavano interrando ai margini di una selva di lapidi che ripropone ossessivamente sempre lo stesso numero: 94. Nati venti o cinquantanni fa, o dodici, o tre, tutti in quel cimitero paiono morti adesso, o l'altro ieri, o una settimana fa. Tutti - qualche centinaio - morti nell'anno che è appena cominciato. Il padre di Igor era in piedi, sul mucchio di terra che avrebbe dovuto riempire la fossa, e voleva esprimere dolore ma in qualche modo arringava, rivolto a una ventina di persone. All'amico del figlio: «Tu te lo ricordi, vero, il mio Igor? Ricordi come andava presto al mercato e quanto volentieri si metteva al lavoro... Ricordi, quando eravate ragazzi, quanto ti era amico...Ricordi quanto affettuoso fosse con tutti i suoi cari...». Poco più in là una ragazza bionda, la sorella del morto, singhiozzando si avvicinava sempre più alla fossa, cercava di toccare la bara, sempre più dappresso, fino a scivolare nella buca, a distendervisi, abbracciando il legno come a volersi annullare nell'identica sorte. Rivela volti inimmaginabili, il «peggio» nel quale Sarajevo continua a sprofondare. Avreste dovuto vederle, le facce delle tre ragazze che ad un certo punto sono entrate, ciascuna spingendo un carrello di servizio, sull'unico ascensore ancora in funzione all'albergo «Holiday Inn», e su quell'ascensore che sembra un montacarichi d'ospedale hanno cominciato a scambiarsi informazioni su questo o quell'amico, o fidanzato, o parente. Parlavano con tono sommesso, distante. Quello? «E' morto al mercato». Quell'altra? «Non la vedo da due settimane: mi hanno detto che era all'ospedale francese». E tua madre? «Mi ha mandato un biglietto tre giorni fa: suo fratello ò morto sulla Marsala Tita...». Neanche l'ombra di un'emozione: solo un elenco estenuato, un mormorio che sembrava la colonna sonora sbagliata, tanto opachi e distanti erano gli occhi cerchiati di rosso delle ragazze. Può esistere un peggio contabile. Gli ultimi rilevamenti danno un chilo di formaggio a cento marchi, un litro di benzina o gasolio a 48, un chilo di carne che nessuno potrà mai dire da dove provenga, a centoventi. Un peggio bellico: l'altra notte, dopo quel momento di silenzio che sorprende Sarajevo al tramonto (è allora che i cecchini smettono di sgranare la loro bestemmia ininterrotta, è allora che Sarajevo piomba in una buia sospensione), l'altra notte, dicevamo, è ripreso il cannoneggiamento, che è proseguito ininterrotto fino alle cinque del mattino. Adesso nell'ufficio dell'Unprofor (quanto grottesca, ogni giorno di più, diventa quella denominazione: «Protection Force» delle Nazioni Unite. Chi ha protetto, chi continua a proteggere, in questa città, dalla brutalità serba?) il quadro della situazione, il barometro della pericolosità ò fisso sul minimo. «Alert level: green», avverte un cartello. Forse al rosso arriveranno quando questa città sarà stata completamente rasa al suolo. Quando i suoi topi umani non avranno neanche più le cantine in cui rifugiarsi. Quando il cinico e disperato gioco dei bosniaci (morti, morti, morti: sempre più vittime da sbattere in faccia al mondo, nella speranza che un brandello di coscienza prima o poi si agiti) forse prevarrà sul cinico e ottuso gioco di Serbia e Croazia. Forse. Ma intanto - ed è questo un elemento terribile e nuovo - si fa sempre più probabile il caso che tutto questo finisca solo quando sarà chiaro a tutti, perfino ai cannoni serbo-federali, che questa città non si cambierà mai faccia, ma nel frattempo ha cominciato a lasciarsi morire. Giuseppe Zaccaria 1MONTE TREBEVIC Le piste dove trionfarono i campioni tedeschi di bob Hoppe e Slauer non esistono più. Dalla cima della montagna, una batteria serba, e una decina di carri armati, martella Sarajevo. Più in basso, sono schierate le milizie bosniache del comandante Kako. 2PALE Famosa stazione di villeggiatura destinata all'intellighenzia, nel 1984 ospitò centinaia di atleti da tutto il mondo. Adesso nei due hotel principali, il «Panorama» e l'«0lympic», è stato installato il quartier generale dei nazionalisti serbi bosniaci. 3M. BJELASNICA Sulle piste dove sciò con straordinaria bravura l'americano Bill Johnson, alcuni mesi fa si è combattuta una delle battaglie più feroci della guerra: per settimane, serbi e musulmani si sono disputati il possesso di una piccola stazione televisiva. 4DOBRINJA Un tempo cuore del villaggio olimpico e poi centro residenziale, il quartiere è stato il primo, nell'aprile del 1992, a subire le pulizie etniche: centinaia di persone hanno abbandonato le loro case. I miliziani l'hanno trasformato in un ghetto musulmano. 5MONTE IGMAN Qui si esibì il saltatore finlandese Matti Nykaenen. Il suo possesso ha un valore strategico decisivo: la zona consente agli assediati bosniaci di mantenere un'esile via di comunicazione con il mondo esterno. 6SKENDERIJA In questo complesso ebbero luogo non solo eventi sportivi (hockey e pattinaggio artistico), ma anche eventi culturali: qui aprirono i battenti un auditorium e numerose gallerie d'arte. Attualmente, la zona ospita gli accampamenti dei Caschi Blu. 7HOLIDAY INN Nell'hotel che ospitò la nomenklatura olimpica si è rifugiata la comunità straniera: è l'ultima "isola» ancora vivibile nel grande inferno della capitale. Qui arrivano ancora, anche se irregolarmente, luce e acqua e funziona un sistema di comunicazioni satellitare. 8LA SEDE DELLA TV E' un enorme palazzo, costruito nell'84 con i finanziamenti della rete americana «Abc». Nonostante i bombardamenti continui delle artiglierie serbe dalle alture circostanti, non ha mai smesso di diffondere le immagini della strage in corso nella capitale. 9STADSO KOSEVO E' in questo stadio, situato tra la città moderna e il vecchio quartiere austriaco, che si svolse la cerimonia d'apertura dei Giochi. Ora il campo di calcio è stato trasformato in un immenso cimitero e dove sorgeva il campo di pattinaggio c'e un forno per il pane. Il padre chiede a tutti: vi ricordate di lui? La sorella, una ragazza bionda, si getta nella fossa per abbracciare la bara I i a i e , a l e i schierate le milizie bosniache del comandante Kako. il quartier generale dei nazionalisti serbi bosniaci. possesso di una piccola stazione televisiva. © 7HOLIDAY INN Nell'hotel che ospitò la nomenklatura olimpica si è ri6SKENDERIJA In questo complesso ebbero luogo non solo eventi i Un'altra drammatica immagine del mercato dopo la strage Qui a fianco, una donna di Sarajevo sbarca da un C-130 nella base Usa di Ramstein, in Germania