LABORATORIO «Tecnologie in soccorso dell'Italia» di Piero Bianucci

LABORATORIO LABORATORIO Tecnologie in soccorso dell'Italia QUALCHE dato sullo stato dell'economia italiana. Il 1993 si è chiuso con 550 mila posti di lavoro in meno. Su 1807 aziende, nel periodo 1988-92 il ritorno degli investimenti è sceso dal 12,8 per cento al 6,4, mentre l'indebitamento cresce al ritmo del 22 per cento all'anno. C'è una crisi che è planetaria. Ma c'è una crisi che è specifica del nostro Paese. Perdiamo competitività - nonostante l'aiuto dato dalla svalutazione agli esportatori - non soltanto perché il costo del lavoro e quello del denaro rimangono alti, ma anche e forse soprattutto perché i prodotti italiani non si avvalgono abbastanza delle nuove tecnologie e dei frutti della ricerca. Una situazione che ha radici varie e profonde: tra le principali, lo scarso dialogo che esiste tra l'industria da una parte e l'università e la ricerca dall'altra. I dati esposti nelle prime righe li ha forniti Giovanni Bisogni giovedì scorso durante una tavola rotonda organizzata a Roma dalla Formit, Fondazione per la ricerca sulla migrazione e sulla integrazione delle tecnologie, creata dallo stesso Bisogni con Daniel Bovet, professore di informatica all'Università di Roma. L'occasione la forniva la presentazione del primo volume curato dalla Formit, «Innovazione tecnologica e industria in Italia», editore Bulzoni. Altri dati sono venuti da Alberto Tripi (Confindustria) e Alessandro Ovi (Iri). La grande industria, si è ricordato, è in crisi. D'altra parte, meno di mille aziende in Italia hanno più di mille dipendenti. E centomila ne hanno meno di 100. E' chiaro che media e piccola industria nell'economia del nostro Paese hanno un peso decisivo. Ma mentre le grandi imprese nonostante tutto hanno investito e investono molto in ricerca, e quindi ci si può attendere prima o poi una ripresa, piccole e medie industrie incontrano più difficoltà a investire nell'innovazione tecnologica. La quale, per di più, raramente porta il marchio italiano: l'anno scorso i giapponesi hanno depositato 317 mila brevetti, l'Europa 97 mila, l'Italia soltanto tremila. Silvia Costa, sottosegretario al ministero dell'Università e della ricerca scientifica, ha insistito sulla necessità di far dialogare meglio tra loro industria, ricerca e università, pur riconoscendo che è anche una questione di numeri: l'Italia investe in ricerca soltanto l'I,4 del prodotto interno lordo e ha solo 76 mila ricercatori contro i 123 mila della Francia, per non parlare dei 310 mila della Germania. Ma non è soltanto un problema di quantità. E' anche un problema di qualità. E la tendenza del governo Ciampi, che dovrebbe essere rilevata dal governo destinato a succedergli dopo le elezioni di marzo, è stata appunto quella di introdurre sistemi di valutazione dei risultati, in modo che i fendi per la ricerca non siano distribuiti a pioggia prescindendo dai frutti che portano, ma vadano a premiare chi effettivamente produce conoscenze e tecnologie utili al Paese. Franco Bonelli, professore di storia economica alla Terza Università di Roma, ha portato nel dibattito la prospettiva storica, rifacendosi al libro con cui la Formit ha inaugurato la propria collana di saggi. Curato da Daniela Brignone, questo volume affronta cinque storie emblematiche di innovazione tecnologica nel nostro Paese. L'industria laniera, le acciaierie Terni, la prima fabbrica di ghiaccio (sorta a Roma a cavallo del secolo), le tecniche di molitura e pastificazione alla «Pantanella» tra il 1865 e il 1914 e la crisi dell'industria della seta in Italia sono i casi trattati. «La storia - dice Bonelli - non ci può insegnare nulla, ma può aiutarci a interpretare i problemi di oggi. Le vicende ricostruite nel libro della Formit indicano come oggi il processo di innovazione tecnologica sia particolarmente importante nelle piccole e medie industrie». E anche l'informazione - ha ricordato Ugo Apollonio, vicepresidente dell'Unione giornalisti scientifici - può contribuire a questo processo: un'inchiesta Doxa pochi giorni fa ha accertato che il 58 per cento dei lettori chiede più spazio per la scienza sui giornali. Piero Bianucci