LA GIUSTIZIA DEFORMATA DALLA TV

LA GIUSTIZIA DEFORMATA DALLA TV LA GIUSTIZIA DEFORMATA DALLA TV Gli americani abbandonano il processo-spettacolo GLI inappagati lettori di Scott Turow e John Grisham hanno trovato una rete via cavo che porta in salotto le scene incalzanti dei processi del giorno: gli abbonati americani della Court Tv sono diventati 15 milioni in poco tempo. Forse gli appassionati italiani del giallo stanno scoprendo «Un giorno in Pretura» e non perdono una battuta del processo Cusani. E tutti siamo portati a pensare che queste immagini di video verità siano lo specchio dell'esistente, eccitante e nel contempo autentico. Ma c'è il trucco. Anche questo è spettacolo. Film, telefilm, e oggi anche la ripresa televisiva delle scene giudiziarie, riflettono immagini e contenuti rigorosamente selezionati allo scopo di escludere il noioso e mostrare l'avvincente; lo spettatore non può fare a meno di convincersi che quest'ultimo sia la consuetudine, mentre di frequente rappresenta l'eccezione. Fioriscono pertanto gli stereotipi, assorbiti dal pubblico come riflesso fedele di quanto accade, mentre invece ne sono gli specchi deformanti. Chi ad esempio volesse raccogliere le idee sul processo americano dopo aver seguito film, telefilm e poi anche la ripresa del processo al giovane Kennedy per i fatti di Palm Beach, non avrebbe esitazioni. Si affermerebbero, senza incertezze, le scene del processo come campo di conflitti, come luogo in cui le parti, accusa e difesa, si confrontano senza esclusione di colpi. I protagonisti sembrano muoversi all'unico fine di mettere in difficoltà l'avversario, con l'inevitabile vittoria di chi sarà stato in grado di mettere a segno la stoccata finale. L'avvocato è indomabile, grintoso e combattivo, sempre pronto a rintuzzare gli attacchi di un accusatore in apparenza strapotente. Il suo abito non è la toga, ma il completo inappuntabile di chi deve vincere sempre; e se poi l'abito è stazzonato non importa, vestirà le spalle di un Paul Newman che nel II verdetto di S. Lumet, lotta per ri- Di Pietro e Spazzali protagonisti ormai ogni séra siigli schermi televisivi per il processo a Tangentopoli In Italia fanno audience Di Pietro e Spazzali in Usa si preferisce alla «lotta» in aula la collaborazione tra gli avvocati e il giudice na, stimola, catalizza e ravviva le tinte. La realtà vera e appartata è molto meno mitica, i suoi quadri hanno colori molte più composti e scoloriti. Per tornare oltreoceano, le statistiche americane dicono che ben il 98% dei processi non si fa in aula, e ciò perché gli imputati optano per la strada secondaria, più redditizia e meno drammatica, del patteggiamento, concordato nei corridoi delle Procure e accolto con rapidità dai giudici con il martelletto. E anche quel poco di conflitto che rimane è oggetto di riflessioni, profonde e spesso critiche. A questo proposito proprio in questi giorni è apparsa in libreria l'antologia Avvocati e Giustizia negli Stati Uniti, edita dalla casa editrice Il Mulino, e leggendo alcuni dei rigorosi saggi raccolti si ha la sensazione che al tradizionale processo di «lotta» si stia sostituendo il cosiddetto «processo di verità». In poche parole la «collaborazione» sembra prevalere sullo «scontro», alle ragioni dei singoli da difendere si affiancano quelle della collettività da proteggere. Negli articoli riuniti da Angelo Dondi si svelano nuove regole introdotte in materia di etica profes¬ sorgere e ce la fa. L'accusatore veste i panni del pubblico ministero arcigno e furbo, pronto ad attaccare la difesa e preparato a scovare le malizie: per rappresentare tutti basta il Procuratore Burgher, cotroparte predestinata a scontrarsi settimanalmente in aula col più accattivante Perry Mason. Ma se si preferisce la penombra delle indagini, quella dove i poliziotti ricercano piste, intuiscono psicologie, afferrano indizi grazie alla forza del loro apparato, allora è meglio utilizzare il solo apparentemente apatico ispettore Dana Andrews del celebre Vertigine di Otto Preminger. Dietro l'altro bancone vi sono gli imputati che negano disperatamente, e finalmente vengono assolti poiché innocenti, come Lorena Bobbit, opure vengono assolti ma sono colpevoli come Jeff Bridges di Doppio taglio, che ripete il perfido inganno del suo antenato Tyron Power, diretto da Billy Wilder in Testimone di accusa. Questo è lo spettacolo. Ma anche i processi veri diventano spettacolo, perché le paiti lasciano la realta per la recita, guardano alla telecamera in fondo all'aula e questa anziché registrare ciò che accade, condizio¬ Luigi Accattoli lo ho avuto paura a ricevere quella nomina Sei.pp. 104, L. 24.000 sionale dalla Corte Suprema. Ad esempio la fedeltà nei confronti del proprio cliente non è più l'unico parametro di comportamento dell'avvocato; si fanno strada gli obblighi verso gli altri, verso gli avversari, verso i giudici; si affacciano con forza i doveri di integrità e di sincerità. Deve l'avvocato collaborare all'occultamento delle prove o rifiutarsi di esibirle? Può aiutare il cliente a rendere deposizioni che sa essere false? Questi sono gli interrogativi che tormentano i legali americani e che li stanno conducendo ad una pratica di fair play sempre più diffusa e dunque a risultati sempre più scadenti in termini di spettacolo. Si stanno forse costruendo modelli comportamentali sconosciuti in cui la priorità non sarà più quella di tentare di sgretolare i testimoni e smascherare in ogni modo le prove sfavorevoli, e tutto ciò perché stanno entrando in crisi alcuni principi fino ad oggi ritenuti indiscutibili. Primo fra tutti quello per cui si è sempre creduto che, con l'esame incrociato dei testimoni, la loro grintosa aggressione da parte degli avvocati alla sbarra, ed il buon senso finale della giuria, nella maggior parte dei casi la verità debba emergere. Oggi si incomincia a pensare che forse non è vero, o comunque non sempre. Forse il teste mite ma sincero è travolto da un legale aggressivo e al contrario quello callido e preparato resisterà a qualsiasi assalto. Con buona pace per i finali con lacrime e verità della maggior parte dei telefilm. Ma anche la diretta televisiva ci porta lontano dal vero, anche se ci fa credere di spiare l'autentico che invece si deforma per il solo fatto di essere osservato. Allora è meglio continuare a leggere Sùnenon.

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