Pronti, in attesa della ripresa

Pronti, in attesa della ripresa Pronti, in attesa della ripresa Le capacità imprenditoriali e di lavoro delle aziende torinesi sono un capitale di risorse che non andrà disperso. L'analisi del «caso Torino» vista dal Presidente degli industriali torinesi Gli imprenditori torinesi si sono riuniti in un Consiglio Direttivo dell'Unione Industriale, aperto a tutti i Consigli Direttivi delle Categorie e dei Gruppi merceologici dell'associazione e delle sue rappresentanze istituzionali. Era presente anche una folta delegazione di imprenditori associati all'API di Torino, nonché il Sindaco della città, Valentino Castellani, e il Presidente della Regione Piemonte, Giampaolo Brizio. Con questo iniziativa, gli industriali torinesi hanno voluto esprimere, accanto ad altre voci e ad altre analisi, il loro punto di vista sul cosiddetto «caso Torino»; le potenzio/ito di Torino e della sua industriai il ruolo del fattore industriale nel futuro della città. Dopo l'introduzione del Presidente, Bruno Rambaudi, moltissimi sono siati gli interventi degli imprenditori presenti. Tra gli altri, il Presidente della FIAT, Giovanni Agnelli, l'Amministratore Delegato FIAT, Cesare Romiti, Francesco Devalle (Presidente Feder meccanica), Sergio Pininfarina, Emilio Lavazza (Presidente Lavazza), Giuseppe Lignana (Amministratore Delegato Burgo), Luciano Lenotti (Vice-Direttore Generale RIV-SKF), Luigi Tessera Chiesa (Presidente Picco/industria e Materie Plastiche dell'Unione torinese), Giuseppe Di' Corofo (Presidente API Torino), Rolf Hilfiker (Presidente Gruppo Giovani Imprenditori). Moltissimi gli interventi di imprenditori stranieri, che da moltissimi anni, o da poco tempo, hanno investilo, o stonno investendo, in stabilimenti produttivi nell'area torinese. Tra questi, il Presidente della Michehn Italia, Emmanuel Daubrée, l'Executive President Dayco Europe (del Gruppo americano Dayco), Kurt J. Johansson, il Presidente della Breed Italia (Gruppo americano Breed), Giovanni Magistrali, e Patrice Bourgois, Presidente della francese Reydel. Pubblichiamo, qui di seguito, l'intervento di apertura del Presidente dell'Unione Industriale di Torino, Bruno Rambaudi. Ho sentito forte il bisogno di questa occasione di incontro, in un momento nel quale l'industria torinese è al centro di un dibattito non certo privo di asprezze, imprecisioni, pregiudiziali. Non è un esercizio retorico, ricordare, proprio in questo momento, che da un secolo Torino poggia sul suo sistema industriale. Un dato incontestabile. Ricordo anche che le nostre imprese hanno dato un grande contributo alla crescita industriale del Paese. Anche di questo, siamo orgogliosi. Rifiutiamo gli argomenti di coloro i quali accusano la Fiat e molti altri industriali di questa città, di avere aperto centri produttivi anche nel Sud del paese. D'altra parte, molti degli accusatori sono gli stessi che, in un passato non lontano, ci incalzavano - persino con gli scioperi - purché andassimo nel Meridione a costruire occasioni di lavoro. Abbiamo attraversato, nel tempo, cicli positivi e negativi. Come avviene ovunque. Abbiamo reagito alle crisi più dure, sempre in competizione aperta sui mercati mondiali, spesso in condizioni ambientali assai sfavorevoli. Sembra che, oggi, in un'altra lunga stagione difficile, molti 10 abbiano dimenticato. Sino al punto di avanzare la prospettiva di un futuro della città slegato dall'industria. Noi non condividiamo questa prospettiva. Gli imprenditori non intendono accettare questa sorta di dichiarazione di morte annunciata. Soprattutto perché reagiscono alle difficoltà. Investono, rischiano e ristrutturano. E per di più hanno - debbono avere - fiducia nel futuro. L'annunciato declino dell'industria torinese si mescola spesso in modo esplicito - con l'accusa di incapacità e di inettitudine. Nella nostra area è un fenomeno ricorrente: lo ricordo negli Anni 70 e agli inizi degli Anni 80. Naturalmente non ci fa piacere. Ma, soprattutto, procura danni, anche gravi: mortifica l'immagine dell'area, delle sue potenzialità produttive e di lavoro. Piaccia o non piaccia Torino, da cent'anni, appunto, è percepita un tutt'uno con la sua industria. Al di là degli stati d'animo conviene guardare i dati di fatto. Ci siamo lasciati alle spalle un 1993 pesantissimo. Quasi tutti i settori hanno subito drastiche riduzioni di domanda: in ogni caso, tutti quelli su cui poggia la maggioranza dell'industria della nostra area. La stessa sorte è toccata a gran parte degli altri Paesi industrializzati. In alcuni, come la Francia e la Germania, la recessione è stata anche più dura. Sono stati e: spnó toccati Paesi come il Giappone che sembravano immuni da ogni rischio. 11 1994 si presenta con forti incognite. Nulla autorizza un facile ottimismo sulla ripresa della domanda. C'è, però, qualche segnale confortante. I Paesi che prima di noi avevano percepito la recessione ne stanno uscendo. In taluni, soprattutto negli Stati Uniti, i più recenti tassi di crescita hanno dimensioni importanti. In Italia, tutte le rilevazioni registrano la cessazione del trend di caduta. Lo stesso segno hanno le ultime due rilevazioni che riguardano la nostra area: restiamo a livelli di domanda molto bassi, ma la caduta sembra, mediamente, essersi arrestata. Solo questo ad oggi sappiamo. Nessuno sa ovviamente quando i consumi ricominceranno a crescere in Europa e in Italia. Sappiamo però qualche altra cosa. I due, tre anni che ci stanno alle spalle non sono stati sprecati. Il grado di competitività della nostra industria è cresciuto. Si sono determinate importanti trasformazioni e correzioni all'esterno e all'interno delle imprese. Sono maturate decisioni di politica economica che hanno consentito di ricondurre alcuni fattori di costo a dimensioni analoghe ai nostri concorrenti. Più in generale, l'azione dei Governi Amato e Ciampi ha accresciuto il grado di credibilità internazionale del nostro Paese. All'interno delle imprese sono state realizzate le iniziative cruciali. Anzitutto, si è dato corso ad un'imponente massa di investimenti. Lo hanno fatto le grandi, le medie e le piccole imprese; ciascuna secondo le proprie opportunità: investimenti in prodotti, in processi di produzione, in nuovi mercati. L'investimento è il nocciolo dell'attività di impresa, e l'unico metro serio della sua legittimazione: esprime insieme al rischio, la voglia di continuare. Sempre all'interno delle imprese sono stati anche compiuti vasti processi di ristrutturazione e di riorganizzazione: Sono state adottate nuove tecniche di gestione, in particolare del fattore lavoro nell'impresa, I nuovi sistemi produttivi implicano addetti più responsabilizzati, più coinvolti, più preparati, dai più bassi ai più alti livelli di responsabilità. E questa ò una conquista per il mondo del lavoro; non un passo inf dietro. Una conquista, che lascia alle nostre spalle l'indifferenza, se non l'alienazione, della produzione di massa. Si tratta di un mutamento di fondo nel quale noi italiani non siamo certo in ritardo, grazie anche a quanto sta avvenendo nelle nostre fabbriche torinesi. Per quest'insieme di ragioni, esterne ed interne all'impresa, la nostra industria può guardare alla ripresa, quando essa verrà, con la fiducia di poter competere. Lo diciamo senza supponenza, ma pensiamo di poterlo dire. Qualcuno per la verità, sembra averlo capito. Stiamo registrando un accresciuto interesse ad investire nel nostro Paese e nella nostra area. L'esperienza dei comprensori industriali di Chivasso e di Villastellone ne sono, come vedremo, palese testimonianza. Ne è anche testimonianza la ripresa dell'interesse degli investitori istituzionali verso il nostro mercato finanziario. Spiace che credano nell'industria italiana più coloro che ci guardano da lontano, di quanto spesso non credano coloro che vivono vicino a noi. Anche per tutte queste ragioni noi imprenditori respingiamo l'ipotesi di un declino già sentenziato. II clima di queste settimane e le previsioni spesso avventate che ne sono seguite, è stato in¬ nescato dalla questione degli esuberi Fiat. Non intendo, com'è naturale, entrare nel merito di una vertenza aziendale. Anche se molti hanno espresso giudizi - temo - senza conoscere, oggettivamente, i dati del problema. Ma la cosiddetta vertenza Fiat tocca questioni di carattere generale, su cui un'Associazione come la nostra, non può e non deve tacere. Sono in discussione le modalità con le quali nel nostro Paese si debbano affrontare e risolvere le eccedenze di organico. Tema difficile, denso di implicazioni, dove si confrontano direttamente le ragioni dell'economia, della salvaguardia della dignità delle persone, dell'equilibrio sociale. Tema che tutti i Paesi occidentali, nella morsa della recessione, hanno dovuto affrontare. In tutti i Paesi si è ricercato un equilibrio tra le ragioni in campo. Il fulcro di tale equilibrio si è ritrovato, sia pure con diverse modalità, nell'assunzione di due principi base. Primo: che non si può mantenere una occupazione fittizia presso la singola impresa o il singolo settore; secondo: che la mobilità verso altre aziende ed altri settori debba essere accompagnata da sussidi a favore dei lavoratori e da processi di formazione che agevolino la riconversione e la mobilità degli Stessi lavoratori. Da noi si sta cercando di adottare un modello assai diverso: la difesa dell'occupazione là dove essa è, azienda per azienda. La richiesta di usare, sempre, in ogni azienda, ed in ogni situazione di mercato i contratti di solidarietà, e cioè di una riduzione di orario a carico della collettività, ha in concreto, questo solo significaloNel breve, i conti possono tornare. Nel medio e nel lungo periodo, si pi"eco8tituisce uno zoccolo di finti occupati assai grave per le singole imprese, per la collettività, per le nuove generazioni. E' l'estensione del modello «Crotone» a tutto il Paese. E' inquietante che solo noi lo denunciamo. Non mi stupisce la posizione del sindacato: fa il suo mestiere, guardando, sfortunatamente, troppo al presente, E' invece grave che chi ha responsabilità istituzionali a tutti i livelli, si rifiuti di vedere la sostanza delle questioni e si rifugi soltanto nella ricerca di un facile consenso. Negli anni scorsi, a Torino, sono state compiute, decine di ristrutturazioni, per piccole, medie e grandi imprese, sempre con l'accordo del sindacato. Nel caso Fiat, lo stesso sindacato, o una sua parte, non ha giudicato sufficienti i criteri e gli strumenti adottati per le altre imprese. E' un metodo che abbiamo già sperimentato: l'idea che la Fiat, per la sua rilevanza, debba costituire una specie di palestra per nuove diciamo così - conquiste da estendere poi alle altre imprese. Quando, però, si alza il livello della rivendicazione non ci può poi stupire o rammaricare se si rompono le trattative e se l'impresa è costretta ad iniziative unilaterali; e cioè autotutelare le ragioni della propria sopravvivenza. A Torino, ed in Italia, abbiamo ancora il ricordo di lavoratori che sono stati 20 anni in Cassa integrazione e che hanno attraversato, in questa situazione, momenti di bassa e di altissima congiuntura, quando non c'era in realtà un disoccupato. Quale che sia l'esito della vertenza Fiat o di altre vertenze, noi, dal nostro punto di vista dobbiamo avvertire che si stanno ponendo le premesse per la moltiplicazione di questi casi. Credo che il sindacato sottovaluti il grado di maturità del Paese; è molto improbabile che le nuove generazioni possano accettare una così grave ed ingiusta deformazione del mercato del lavoro, che di fatto li terrebbe fuori dalle aziende. Dal nostro punto di vista, la decisione di incidere sugli organici non è affatto, come taluno sostiene, la scelta più facile. In tutte le imprese, dalla più grande alla più piccola, si radicano giorno dopo giorno relazioni umane, piccole comunità, consuetudini di vita. Romperle è scelta che pesa molto. E' spesso l'ultima cosa a essere presa in considerazione. E' vissuta dagli industriali come una sconfitta, anche in presenza di un ombrello di ammortizzatori sociali che non ha eguali in altri Paesi. Noi imprenditori, come ho ricordato, dobbiamo avere fiducia. Ma per assicurare un futuro di sviluppo, non basta certo il nostro impegno o la nostra fiducia: occorrono dati di fatto. Su molte questioni cruciali, in Italia, si rèsta sempre al livello dell'analisi o della lamentela. -Di là dell'Atlantico i nostri concorrenti investono a un terzo dei nostri costi. Il costo del danaro resta cruciale. Le banche hanno molti vincoli, ma hanno molta strada da fare sul piano dell'efficienza. - La pressione fiscale sul mondo dell'impresa resta altissima. Lo è per tutti: ma per la piccola e la media impresa, mette seriamente a repentaglio la possibilità di rinnovarsi. E' sembrato, nei mesi scorsi, che si potesse finalmente affrontare la seria questione del divario tra retribuzione netta corrisposta al lavoratore e costo per l'impresa. E' la questione dei contributi sociali che è stata al centro dell'accordo Confindustria/Sindacati/Governo del luglio scorso. Non abbiamo visto alcuna realizzazione. - Nei prossimi mesi scadranno i maggiori contratti dell'industria. Il nostro sistema industriale resta, nel complesso, così fragile che una stagione sindacale di tipo tradizionale provocherebbe danni irreparabili. Autorità, Colleghi imprenditori. Non sappiamo, naturalmente, se e quanto il nostro impegno sarà coronato da successo. Il mercato, nel nostro mestiere, resta l'arbitro decisivo. Sulla ripresa del mercato, e sul successo dei nostri prodotti, continuerà a poggiare in gran misura, come è accaduto in passato, il futuro della nostra città. Ma un insieme di fenomeni già sperimentati nel mondo occidentale, non consentono di fondare il futuro di una città solo sul futuro dell'industria. Noi condividiamo profondamente l'esigenza che Torino sia arricchita di nuove iniziative, se possibile, di nuove imprenditorialità. Alla Pubblica Amministrazione compete, su questo punto, un ruolo essenziale, come catalizzatore e coordinatore di iniziative complementari all'industria. A Torino, «uesto ruolo manageriale pubblico manca ancora. In un'epoca di concorrenza fra aree, le carenze di gestione del territorio - e gravi nella nostra città - sono evidenti: trasporti urbani e extraurbani, aree industriali; strumenti urbanistici, problemi della formazione, dell'Università, della Ricerca. A questo, va posto rimedio, come punto di partenza per una promozione effettiva della nostra area, in Italia e all'estero. Sono le premesse non solo di una maggiore competitività industriale, ma anche della nascita e dello sviluppo di altre attività. Qui, entrano pesantemente in gioco le responsabilità pubbliche, nazionali e locali; entrano in gioco i ritardi e i rinvìi nell'aggiornamento infrastnitturale e dei servizi dell'area torinese e piemontese. I danni che questi ritardi comportano in termini di occasioni di sviluppo per la città, li abbiamo potuti toccare con mano nella ristrutturazione delle aree di Chivasso e di Villastel- lone. In questi due casi, infatti, sono stati i privati a realizzare infrastrutture per l'industria: aree attrezzate a prezzi molto accessibili. Ebbene, come è noto, la risposta positiva dal mondo produttivo non si è fatta attendere, nonostante la bruttissima fase congiunturale che stiamo attraversando. Dallo scorso mese di luglio abbiamo presentato, insieme alle Organizzazioni sindacali, alla Regione Piemonte e al Comune di Torino, precise proposte, persino tecnicamente articolate, per allargare nella nostra città l'offerta di aree destinate all'industria e condizioni competitive. Attendiamo una risposta. Occorre che gli enti locali assumano decisioni politiche. Sarebbe imperdonabile, in un momento favorevole, perdere tempo. L'inserimento di Torino tra le aree che beneficeranno dei fondi strutturali della Comunità consente di contare sulle risorse necessarie. La nostra disponibilità a collaborare con le istituzioni è nota. Non elenco tutte le nostre iniziative che la documentano. Il problema di Torino non va affrontato con animosità, come spesso accade in questi giorni. Piuttosto, con la consapevolezza che certi fatti dolorosi sono sì ineluttabili, ma di fronte ad essi si può e si deve reagire in positivo, per attenuare nell'immediato i disagi e per costruire nuove prospettive. Per fare questo - ognuno secondo il proprio ruolo - si deve, però, essere tutti convinti che Torino non è una città alla deriva. La città ha bisogno di idee, di managerialità, di scelte condivise nel reciproco rispetto. Non ha bisogno, invece, di polemiche di parte. Sono qui a ribadire - ancora una volta, come nel passato che gli imprenditori hanno fatto ed intendono continuare a fare la loro parte.